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La Stampa

La Sicilia di Ferrero ... Una sciantosa per lo zio Ernesto... Un luogo lontano, per cui provavo nostalgia prima ancora di averlo conosciuto: nel ricordo di antiche storie famigliari ... Sin da ragazzo ho amato la Sicilia come una madre lontana che non avevo ancora conosciuto, ma di cui portavo in cuore l’immagine e la nostalgia. Attribuisco questo amore a una precisa eredità genetica di tipo culturale. Mio padre, e prima di lui suo zio, di cui porto il nome, avevano una fabbrica di marsala a Marsala. Succedeva abbastanza spesso che imprenditori del Nord avessero stabilimenti vinicoli nel Sud. Allora il marsala aveva ancora un mercato discreto, e i generosi vini meridionali erano perfetti per innalzare la gradazione alcolica dei vini subalpini. Lo zio Ernesto in Sicilia ci stava benissimo. Scapolo e bon vivant, cultore del gentil sesso, baffi a manubrio e ribalde magliette da marinaio anche in età avanzata, rifilava affettuose pacche da intenditore sul sedere di mia madre giovane sposa, lodandone le qualità di continuatrice della “buona razza dei Ferrero”. Aveva sponsorizzato - si direbbe oggi - una diva del varietà d’allora, originaria di Manduria, che aveva adottato il nome d’arte di Cabiria. Devo avere dei cugini, a Manduria. Ci siamo reciprocamente ignoti, ma non ho dimesso la speranza d’incontrarli. Siamo intorno al 1912, l’anno del successo del colossal storico di Pastrone. Lo zio Ernesto requisiva per intere serate il teatro di Palermo in cui Cabiria si esibiva, e vi ospitava i suoi amici. Chissà che il suo ricordo sia rimasto in città. Alla
fine dello spettacolo “zia” Cabiria scendeva in platea, e stampava un grosso bacio colorato sulla fronte pelata dello zio, tra le ovazioni degli astanti. Mio padre parlava della sciantosa che immagino come una delle donne debordanti di Fellini con una sorta d’affetto parentale. Temo che con le sue allegre sponsorizzazioni lo zio Ernesto abbia dilapidato buona parte del patrimonio familiare, ma non gliene voglio. Ha fatto benissimo. I racconti che invece faceva mio padre della sua Sicilia erano molto meno pittoreschi. Non solo per i viaggi interminabili di allora, il treno, la polvere, l’arsura, la noia delle ore che lui cercava di riempire con libri: Savinio, Bontempelli, una storia della letteratura latina di Concetto Marchesi e una di letteratura greca di Gennaro Perrotta (sicilianissimo,
credo), formidabile per aneddoti colorati, che poi ho fatto mia, per lo sbalordimento dei compagni di liceo e dello stesso professore. Il piccolo industriale era un lettore eclettico ma raffinato.
Mio padre era magro, nero, serio e signore come un siciliano. Aveva svelti baffetti e assomigliava un po’ a Gabriele Ferzetti, ma non certo al personaggio del politico democristiano, potente boss mafioso, che l’attore aveva interpretato nel film tratto da “A ciascuno il suo” di Sciascia. Passava le notti e le domeniche barricato nella villetta padronale annessa allo stabilimento, in solitudine. Sentiva salire dagli scantinati il sordo rumore provocato dal rotolio delle botti che gli stavano portando via. Ma poiché non era il Gary Cooper di Mezzogiorno di fuoco, e i briganti siciliani non sono gli sprovveduti banditi dei film americani, non osava scendere sotto e affrontarli. Erano troppi, e lui era solo. Stava a sentire e patire il loro assedio invisibile e rumoroso con una sorta di filosofica rassegnazione, quasi una stoica filosofia della storia che forse mi ha trasmesso insieme alla nostalgia per l’isola.

Ho poi ritrovato la Sicilia per caso - ma esiste il caso? - lavorando alla tesi di laurea assegnatami da un maestro di studi geografici, Piero Gribaudi. L’argomento era suggestivo: “in qual modo l’insularità aveva determinato la storia delle nostre due isole maggiori, Sicilia e Sardegna”. Scoprii che mentre quella della Sardegna è un’insularità doppia - il rifiuto d’ogni contatto con il mondo esterno, il mare sentito come minaccia e ostilità, non come potenzialità da esplorare; da cui nasceva una sorta di scontrosa implosione terragna, l’insularità della Sicilia è aperta e commerciale come una piazza di paese, un emporio: un luogo d’incroci, traffici, contaminazioni. Scoprii gli arabi e il molto che alla Sicilia avevano dato. Leggevo con reverenza Michele Amari, e sugli arabi di Sicilia giravo mentalmente sontuose fiction in technicolor e cinemascope, come allora s’usava. Poi nella primavera del 1963 ho cominciato a lavorare alla Einaudi. Un giorno nel vano della porta dell’ufficio si è disegnata la silhouette di Leonardo Sciascia. Era avvolto in uno di quei cappotti neri che credo si facciano soltanto in Sicilia. Cappotti autorevoli, quasi da cerimonia, come una seconda pelle, che dicevano il senso del decoro, della dignità e anche il rispetto che chi lo indossava portava alla persona che si recava a visitare. Don Leonardo si sedeva con l’aria di chi si tratterrà poco (di solito era di passaggio verso Parigi), e sulla labbra gli compariva un sorriso imbarazzato, accompagnato da una sorta di gorgoglio basso e continuo, con cui sembrava scusarsi preliminarmente delle pochissime cose che avrebbe detto. Al pari del suo amico Calvino, non amava sprecare troppe parole parlate perché le giudicava imprecise, quasi sconvenienti. Che cosa dire, poi? Sapevamo già quello che c’era da dirsi. Lui che era contento di pubblicare il suo libro da Einaudi, che si attendeva da noi un giusto impegno per farlo conoscere, ma niente di più. Al massimo si parlava dell’illustrazione da mettere sulla copertina del libro. Lui aveva un gusto figurativo infallibile. Si limitava a tirar fuori in silenzio dalla sua cartella prefettizia un’acquaforte,
disegno, la riproduzione di un quadro. Erano perfetti. I suoi libri erano dei parti rapidi e indolori. Quanto a noi, avremmo voluto dirgli quanto i suoi libri ci allargavano la testa pur conservando un margine di insondabile mistero, assai simile ai suoi timidi ed enigmatici sorrisi. Ma sentivamo che gli apprezzamenti che si fanno a voce finiscono col risultare generici e scontati. Come riuscire a dire il coinvolgimento, l’amaro divertimento pensoso che procurava “Il Consiglio d’Egitto”, storia di un’impostura così siciliana, così italiana? Altri incontri, altri affetti mi hanno legato ancora di più all’isola. Nel 1976 mi entusiasmai anch’io per Il sorriso dell’ignoto marinaio. La sontuosità espressiva, le parole musicali martellate come da un fabbro sapiente, l’irritata passione civile di Vincenzino Consolo sono qualcosa che ho metabolizzato nel profondo. Alla Fiera del libro di Francoforte ho conosciuto Enzo Sellerio, a quella di Torino i suoi figli Antonio e Olivia. Donna Elvira invece da Palermo non si muoveva proprio, ma anche da lontano potevo amarne l’intelligenza, il coraggio, le scelte intransigenti, le virtù repubblicane venate di uno humour molto siciliano. Non le sarò mai abbastanza grato d’avere scoperto uno scrittore come Sergio Atzeni, semplicemente leggendo il manoscritto di uno sconosciuto, arrivato per posta. Oggi non lo fa quasi più nessuno. Quanto a Enzo, figlio di madre russa, l’ho sempre pensato libero dalle servitù del tempo, come un personaggio di “Guerra e pace” in cui potrebbe aggirarsi vestito da ussaro, al fianco del principe Andrej; o come un paladino dell’Ariosto, la bella faccia intagliata nello stesso legno dei pupi. E un maestro di stile e del gusto anche lui, ivi compresi il modo di gestire i rapporti umani, il riserbo signorile, la timidezza di fondo in un uomo che non ha nulla che lo possa rendere timido.
Enzo è di quelli che sono ancora capaci di arrabbiarsi: anzi, di incazzarsi. In un Paese cinicamente rassegnato davanti a ogni forma di sopruso, violenza, volgarità, è tra i pochi che non stanno zitti. Ma parlano con uno humour che è tanto più tagliente quanto più controllato nei modi.

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