Soffre del nanismo del suo sistema produttivo, di una burocrazia monstre rispetto ai competitori, dell’incapacita di spendere in maniera efficiente le risorse Europee, e di una redistribuzione del reddito lungo la filiera che penalizza pesantemente la produzione di materia prima eppure, l’agroalimentare italiano non è solo uno dei settori più in salute e performanti del Belpaese, ma è anche leader a livello europeo per valore aggiunto. È il quadro che emerge dal “Rapporto sulla competitività dell’agroalimentare italiano” di Ismea, presentata oggi a Roma. Con un valore di 41 miliardi di euro a fine 2017, l’Italia ha raggiunto il suo primato storico e detiene una quota sulle esportazioni agroalimentari dell’Ue (525 miliardi di euro) pari all’8%. Negli ultimi cinque anni le esportazioni italiane del settore sono aumentate del 23%, più di quelle dell’Ue (+16%). E “nei primi 5 mesi del 2018 si cresce ancora, del 3,5%”, ha sottolineato il presidente di Federalimentare Luigi Scordamaglia. il ruolo del made in Italy nelle esportazioni del settore primario europeo emerge chiaramente analizzando le prime cinque voci, per le quali l’Italia è leader. Al Belpaese si deve il 35%-36% dell’export europeo di mele e di uva, il 47% di quello di kiwi, il 61% di quello di nocciole sgusciate, il 35% di quello di prodotti vivaistici. E anche sul fronte della trasformazione l’Italia incide eccome: è il primo esportatore di pasta e di conserve di pomodoro con una quota del 65% circa del valore dell’export Ue, il secondo per vino e olio d’oliva, incidendo rispettivamente per il 27% e per il 23% delle esportazioni europee e, con una quota del 13%, l’Italia è il quarto esportatore Ue di formaggi e latticini. Un successo legato alla passione per la qualità dei prodotti italiani nel mondo, ma anche al mercato nazionale, perché come ricordato dal presidente Ismea Raffaele Borriello, il settore agroalimentare vale “60,4 miliardi di euro di fatturato alla produzione, che sviluppa però un valore aggiunto che tocca i 214 miliardi di euro, se si allarga alla ristorazione, e che vale il 13% del Pil nazionale, vede in campo 800.000 imprese tra aziende agricole e di trasformazione, per 1,4 milioni di posti di lavoro”. Un giro d’affari impressionante, anche grazie ai 160 miliari di euro che le famiglie italiane spendono per cibo e bevande, voce che assorbe il 15% del loro budget totale.
In particolare, spiega il report Ismea, nel 2017 la spesa per i consumi alimentari è cresciuta del 3,2% nel 2017 sul 2016, e la tendenza alla crescita si sta confermando anche nel 2018. In testa “alla top ten” dei prodotti maggiormente acquistati nel 2017 dagli italiani, c’è l’ortofrutta fresca con un peso sulla spesa del 13,4%, poi le carni fresche (9,5%) e i formaggi (8,4%). A seguire salumi, ortofrutta trasformata, pesce, vino, latte, acqua in bottiglia e solo all’ultimo posto la pasta. Con un spesa, peraltro, sempre più polarizzata ai due estremi: da un lato i “Golden shopper”, più orientati verso elementi valoriali, tangibili ed etici, ed i “Low Price”, i più attenti al prezzo e alle promozioni.
Una filiera “ricca”, dunque, ma con una criticità fondamentale: all’agricoltore puro, quello che produce la materia prima, e non la trasforma, non restano che le briciole. Dall’analisi della catena del valore di Ismea, emerge che su 100 euro destinati dal consumatore all’acquisto di prodotti agricoli freschi, rimangono al produttore come utile solamente 6 euro, contro i 17 euro in capo alle imprese del commercio e del trasporto. Nel caso dei prodotti alimentari trasformati, dove la filiera si allunga, l’utile per l’imprenditore agricolo si contrae ulteriormente, scendendo sotto i 2 euro, al pari di quello realizzato dall’industria alimentare, mentre la quota preponderante del valore è destinata alla fase della distribuzione e della logistica che, prese insieme, trattengono 11 euro.
“Una questione fondamentale da risolvere, puntando sui contratti di filiera”, ha ribadito il presidente di Coldiretti Roberto Moncalvo, mentre per il presidente Cia, Dino Scanavino, “si deve andare oltre la logica del contratto, e parlare di progetti condivisi”.
In ogni caso la situazione è in chiaro scuro: secondo Ismea, il reddito reale annuo per unità di lavoro è di 20.000 euro, meglio della media Ue (16.700 euro), ma ben al disotto dei principali competitor come Francia, Germania e Spagna, dove siamo sui 26.600 euro.
Un settore, l’agroalimentare italiano, che, però, negli anni si è confermato anche un argine alla crisi occupazione. A fine 2017, ci lavoravano 1,38 milioni di persone, il 5,5% degli occupati in Italia, di cui 919.00 in agricoltura, silvicoltura e pesca, e 465.000 nell’industria alimentare, delle bevande e del tabacco. E se negli ultimi 10 anni nell’Ue i lavoratori agricoli sono diminuiti del 17,5%, il nostro Paese ha perso il 6,7%.
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