A portare in quella terra l’amore per la vite e per il vino furono i Fenici già nel 3000 a.C. Un popolo di navigatori e commercianti che operava lungo il Mar Mediterraneo e che avrebbe gettato le basi per la rotta commerciale poi ripresa da Greci e Romani. Una civiltà di artigiani e agricoltori, poco incline al conflitto bellico, che abitava nelle città-stato dove oggi sorge il Libano: un territorio colpito dai bombardamenti contro Hezbollah, movimento e partito islamico sciita lì posizionato, in seguito all’escalation di violenza nella guerra in Medio Oriente tra Israele e Palestina. È in questo contesto drammatico e incerto che anche il mondo del vino locale deve fare i conti con gli eventi che accadono, e WineNews ha contattato direttamente alcuni dei maggiori produttori del Paese per capire le difficoltà che attualmente stanno affrontando.
In Libano l’80% della produzione nazionale di vino si concentra nella valle di Békaa, un’area geografica situata intorno alla città di Baalbeek, dove si trovano la maggior parte delle vigne del Paese e distante 80 chilometri dalla capitale Beirut. La vendemmia - ci riferiscono - è stata portata a termine appena in tempo (il primo raid israeliano su Beirut è del 30 settembre, ndr) e anche le cantine sono state per ora risparmiate dalle bombe: ma con l’Horeca bloccata le criticità maggiori riguardano le vendite. “Abbiamo iniziato la raccolta qualche giorno prima rispetto al solito a causa del clima, terminando a metà settembre. Le bombe non ci hanno colpito per fortuna, ma il mercato locale è crollato del 90% - ci ha raccontato Gaston Hochar, erede e direttore di Château Musar, una delle cantine più antiche e prestigiose al mondo - la nostra azienda è da sempre orientata verso l’export e dal 1990 vendiamo oltre il confine l’80-85% della nostra produzione. Questo ci aiuta adesso così come lo ha fatto negli ultimi anni segnati da problemi economici in Libano, la pandemia da Covid-19 e anche l’esplosione nell’area del porto di Beirut del 2020. Ce la caviamo, ma i numeri delle vendite all’estero non sono molto buoni”.
Quello che è evidente, del popolo libanese e delle voci raccolte da WineNews, è un grande senso di resilienza: “siamo un popolo forte che ha già vissuto situazioni simili e ogni volta cerchiamo di estrapolare il meglio da ogni momento per ritagliarci gioia e felicità. Siamo forti e resistenti come le nostre vigne ed è per questo che abbiamo il vino buono”, ci dice Talal Madi, Ceo di Ixsir. Il nome della cantina deriva dalla traslitterazione della parola araba “elisir”, perché i fondatori, nel 2008, hanno dato all’azienda questo nome per darle “quel sentore di prodotto che avrebbe garantito giovinezza eterna e amore a chiunque lo avesse bevuto”. I suoi vigneti si trovano nella città di Batroun, a 52 km da Beirut, lungo la costa e quindi più periferici rispetto alla valle di Békaa. “Con la vendemmia siamo stati fortunati perché abbiamo raccolto tutta l’uva prima che cominciassero i bombardamenti - prosegue Madi - certo, metà Paese è chiuso, quindi registriamo un calo molto forte nel volume delle nostre vendite e anche la distribuzione è complicata. Eppure, sembrerà strano da dire, ma dal punto di vista qualitativo questa è una delle migliori annate che abbiamo mai avuto. Il bianco è un vino di carattere, aromatico e molto promettente, e anche il rosso sembra speciale”.
Nell’ultimo secolo, crisi politiche e conflitti, non hanno agevolato il lavoro e lo sviluppo dell’industria vinicola libanese. Molti vigneti sono stati distrutti o abbandonati, ma Château Ksara è una delle poche realtà a possedere ancora una base ampelografica con vigne vecchie più di cinquant’anni: la cantina, che ha sede nella città di Ksara, nel cuore della valle di Békaa e a 51 km di Beirut, fu creata dai gesuiti nel 1857 con viti portate dalla Francia tramite le colonie in Algeria. Se il commercio locale non va, bisogna puntare sulle esportazioni, ci spiega l’export manager dell’azienda, Elie Maamari: “la produzione di vino, in Libano, è ancorata alla nostra storia, dal tempo dei nostri antenati: i navigatori Fenici. Più di 3.000 famiglie qua vivono grazie al comparto vitivinicolo. Dobbiamo permettere alla nostra produzione di continuare a crescere, promuovendo i prodotti della nostra terra. Sono appena tornato da un viaggio d’affari in Canada molto positivo dove ho chiuso nuovi contratti e ho notato, sia negli acquirenti che nei consumatori, molta vicinanza, empatia e apprezzamento. Questo mi fa ben sperare”.
Diversa è la situazione per la cantina Cremisan, a Betlemme, al confine tra Israele e Palestina, di cui più volte abbiamo raccontato vicende e storia (come in questo video del 2020, che sembra di un’altra era ormai, ndr), colpita dalla violenza della guerra, soprattutto per quanto ha riguardato la fase di vendemmia: “la nostra uva proviene dai vigneti dei contadini della zona, ma molti non riescono proprio ad accedere alle loro viti - ha detto, a WineNews, Fadi Batarseh, enologo e direttore della cantina fondata nel 1885 dai Padri Salesiani, come sogno di pace legato anche al vino - ci sono i soldati che bloccano le strade ed a qualche terreno hanno anche dato fuoco. Vogliono intimidire gli agricoltori, soprattutto in Palestina, per poi potersi impadronire dei loro appezzamenti”, spiega Batarseh, confermando quello che ci aveva raccontato solo pochi mesi fa, prima che il conflitto in Medio Oriente si allargasse ulteriormente. Rispetto al Libano, per Cremisan la guerra è iniziata il 7 ottobre 2023, ormai più di un anno fa: “ed è da allora che siamo fermi - spiega Batarseh - il 70-80% delle nostre entrate si basavano sul commercio locale, il resto è legato all’export. Ma quella percentuale è sparita in un giorno. L’anno scorso riuscimmo a vendemmiare e abbiamo raccolto 230 tonnellate di uva, quest’anno solo 30. Molto vino dell’anno scorso è rimasto invenduto, ci sono ancora le botti piene. E anche la nostra missione salesiana ne risente: non possiamo mandare via gli operai, abbiamo tante spese e nessuna entrata”. Come per la libanese Château Ksara, una delle strategie pensate da Batarseh è quella di puntare più sull’export che sull’import. Ma come si vende un vino che proviene da una zona bellica? “C’è tanta gente che vuole aiutare - ci racconta - e allo stesso tempo il nostro vino ha molta storia. Se a questa si abbina anche la qualità, allora le persone comprano più volentieri. Per ora noi esportiamo regolarmente solo in Usa, Germania e Norvegia, sporadicamente anche in Italia o Cina. Quindi dobbiamo creare dei nuovi mercati”. Cosa sempre difficile per tutti, in ogni situazione. E ancora più impervia se intorno alle vigne non regna la pace, ma c’è la guerra.
Copyright © 2000/2024
Contatti: info@winenews.it
Seguici anche su Twitter: @WineNewsIt
Seguici anche su Facebook: @winenewsit
Questo articolo è tratto dall'archivio di WineNews - Tutti i diritti riservati - Copyright © 2000/2024