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Libero

“Quel bianco ci dà la carica” ... Valentino Sciotti. Il titolare di Farnese, azienda leader nell’export:
“All’estero l’Abruzzo è una garanzia di qualità”... Si va verso il Castello dei Caldora, che furono potentissima famiglia feudale. Si va verso la collina con una strada che sale dolce da Ortona, città tanto magnificente e bella che Margherita d’Au - stria sborsò 5.200 ducati per comprarsela. E la Farnese Vini ha voluto ripigliare confidenza proprio con la storia restaurando il castello Caldora e facendone la sua sede. È un connubio tra antico e modernissimo questa azienda, come il Trebbiano. Valentino Sciotti non c’è, busso invano alla porta castellana. Ma una dolcissima ed efficiente segretaria mi dice: “Un attimo glielo chiamo”. M’aspetto che arrivi e invece sento la voce spessa e gaia all’un tempo di questo abruzzese tosto e lungimirante, appassionato di ciclismo, nel telefono: “Sto a New York”. E le ferie? “Macchè ferie: qui bisogna vendere e in America, se Dio vuole, qualcosa si muove “. Eh già Valentino non può mollare la presa. Dei 14 milioni di bottiglie che produce, il 93 per cento se ne va oltre i confini nazionali. È l’azienda leader per export di tutto il Centro-Sud. E numeri come i suoi non li fa nessuno, oltre confini, in termini di percentuale. Idem dicasi per l’olio extravergine, altro must di questa cantina che è diventata un modello per tutti i produttori abruzzesi. Invece di comprar vigna (ne ha comunque 25 ettari) ha dettato un disciplinare di qualità ai viticoltori, li ha legati con contratti decennali con retribuzione un tanto all’ettaro a patto che si rispetti il protocollo. Funziona?
“Eccome “, gracchia Valentino in intercontinentale, “i contadini hanno un reddito garantito non sulla iperproduzione, ma dalla qualità, noi non dobbiamo investire in proprietà fondiaria e possiamo mettere i soldi in tecnologia. In questo modo oggi produciamo su 400 ettari e ci siamo espansi in tutto il Sud: in Puglia con la Feudi San Marzano, in Basilicata, in Sicilia”.
Buona idea, ma dettata da inventiva o da necessità?
Gioco-forza: qui il peso della cooperazione è troppo forte. Bisognava trovare il modo di convincere chi suda la vigna a fare qualità e non quantità. Per troppo tempo l’Abruzzo è stato il serbatoio dei produttori del Nord. Il nostro vino anonimo serviva a fare migliori i loro vini, e questo è stato il male comune di tutto il Sud viticolo”. Ma ora qualcosa è cambiato? “Molto. Col Montepulciano e grazie a produttori come Edoardo Valentini e Gianni Masciarelli - purtroppo non ci sono più, ma mi pare che gli eredi nulla abbiano cambiato - abbiamo acquisito notorietà, con il nascere di nuove piccole aziende, ma agguerrite e ben condotte ora abbiamo anche una certa quantità di qualità. All’estero il Montepulciano è conosciutissimo e vendutissimo e l’Abruzzo è sinonimo di ottimo vino a ottimo prezzo. In Italia siamo ancora in fase di evoluzione”.
E il Trebbiano...
“È il mio amore. Il Trebbiano finalmente lo facciamo buono e si è dimostrato che è un grande vino. Ho provato a farlo anche in Nuova Zelanda e se non ci fosse stata la crisi sarebbe stato già un successo. Comunque sono cinque anni che il Trebbiano è in fortissima ascesa di mercato. Noi in Farnese siamo già oltre il milione e trecentomila bottiglie prodotte. E vendute”.
È cambiato il mercato?
“Sì. Oggi si fa fatica a vendere uno Chardonnay, ma il Trebbiano te lo levano dalle mani. Lo avevo capito già 15 anni fa. Andai in Australia e mi dissero che c’era un matto delle mie parti che in McLaren Valley faceva lo Chardonnay senza legno. Mi dissero: quello fallisce. Sapete com’è finita? Ora in Australia i bianchi che si vendono sono tutti underwood. Figurati noi col Trebbiano, che è solo nostro, quali enormi prospettive abbiamo di fronte”.
Una rivoluzione del gusto. Ma sta mutando solo quello?
“Fortunatamente no. Il mondo del vino sta cambiando alla radice. Non ci sono più gli enologi piglia tutto; la tirannia mediatica di certe guide che ti davano il premio, in un meccanismo di do ut des, per ballare una sola estate sta scemando, le Cantine cominciano a interessarsi di marketing. Purtroppo ci sono ancora i soldi buttati in promozioni a pioggia e senza senso da parte degli enti pubblici, ci sono ancora le sirene di alcuni critici che cercano di condizionarci, ci sono ancora le gelosie tra produttori. Ecco qui in Abruzzo non abbiamo ancora imparato a fare sistema, anche se alcune leadership che si sono affermate negli anni hanno aiutato. La crisi per certi versi è stata anche salutare”.
Sì però anche voi in Farnese vi siete fatti fare un vino da un critico?
“Il Cinque autoctoni? È vero, l’idea fu di Hugh Johnson che mi disse di farlo senza usare i vitigni internazionali, i soliti cabernet e merlot che piacciono tanto ai critici alla Pareker, compresi quelli nostrani, che amano i vini da profumeria e da falegnameria. È stato un successo. Ma è la stessa cosa che è accaduta col Trebbiano se la qualità si accoppia alla storia e alla riconoscibilità il consumatore ti premia”.
Torniamo al Trebbiano: ha futuro?
“Garantito. È e sarà il bianco che ci dà la carica per essere riconosciuti come un grande terroir”.

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