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Libero

Little Eataly a New York ... Made in Italy... Incrocio tra la Quinta Strada e Brodway: sei mila metri quadrati di tutto il meglio dell’Italia in tavola. Salvo la farina, il pesce e la verdura che vengono
dagli States. Un’operazione da Oscar che porta nel cuore della grande mela l’immagine dell’Italia del buono (qualcuno aggiunge giusto e pulito, ma fa lo stesso). Piccoli artigiani e grandi (?) industrie dell’agroalimentare in una sorta di luna park dell’enogastronomia officiato da quello che è diventato nel giro di tre anni l’uomo della provvidenza delle tome italiane. Il signor Oscar Farinetti - ex Unieuro - passato con una dote finanziaria importante dalle lavastoviglie a quello che va dentro le stoviglie nella sua impresa americana ha a fianco importanti investitori e opinion maker. Ha fatto una decisiva operazione commerciale che ne sancisce l’indubbia capacità imprenditoriale replicando Eataly, il supermercato di lusso aperto a Torino al debutto della sua vocazione
enogastronomica, moltiplicato al cubo nel cuore di New York. Lì l’élite newyorkese potrà comprare, ma anche acculturarsi e mangiare molto del meglio dell’Italia in tavola e in cantina. Giù il cappello di fronte a Farinetti che fa benissimo il suo mestiere e che per la prima volta ha portato in forze il tricolore nell’ombelico (o presunto tale) del mondo costituendo anche un (debole)
anticorpo all’italian sounding, quel fenomeno in base al quale si vende per italiano ciò che italiano non è. Detto tutto questo resta da considerare come la stampa italiana abbia esercitato una sorta di laudatio nei confronti di questo imprenditore lasciando perdere gli aspetti critici non tanto di Eataly,
ma del perché possa fare tanto rumore un’iniziativa del genere. Eataly è cosa buona e giusta, ma è lo specchio di una little Italy, di una piccola Italia. Resta del tutto irrisolto il perché non siamo in grado di esportare la nostra cultura dell’enogastronomia, resta irrisolto il problema del come dare accesso ai mercati a tanti produttori e soprattutto la cortina di applausi con sottofondo di violini fa passare in secondo piano il vero problema dei problemi: quanto tempo resta alla nostra agricoltura prima di soccombere? A tutelare il made in Italy non basta Eataly, a ridare dignità imprenditoriale
ed economica all’agricoltura non serve Eataly, né conviene illudersi che una nazione dove i poveri non mangiano più neppure gli hamburger (Burger King docet) e dove lo junk food trionfa sia sensibile alle suggestioni raffinate del paese degli gnocchi di Farinetti. Paradossalmente se New York è una vetrina del mondo, non è affatto l’America. E se è così diamo a Eataly ciò che è di Eataly: un’innovativa operazione commerciale. Ma non diciamo che è la soluzione ai gravissimi problemi dell’agricoltura. Al massimo è Farinetti del suo sacco.

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