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Libero

La Cina ci beve … La nuova frontiera del vino è a Oriente, ma l’Italia dei campi è troppo debole. E le aziende agricole chiedono più credito… I cinesi tengono lo yuhan basso e intanto si fanno sempre più ricchi. Per paradosso invadono i nostri mercati agricoli con produzioni massicce e di dubbia qualità e consumano loro i nostri gioielli enogastronomici. Vista dai campi la crisi mondiale sta producendo una sorta di rovesciamento dei valori. Noi produciamo ottime cose che non ci possiamo (quasi) più permettere, loro producono cose mediocri che ci vendono per comparsi le nostre eccellenze. E andrebbe tutto bene se non fosse che nei campi crescono i nostri alimenti, e andrebbe tutto bene se i consumi alimentari fossero (dovrebbero essere) primari e incomprimibili. Invece noi abbiamo preso il vizio di considerare necessario il superfluo e superfluo il necessario. Anche nelle politiche economiche. Di fronte a questo scenario l’agricoltura italiana ha che di interrogarsi. E partire dal vino non è affatto sbagliato. Il vino è il nostro principale motore agricolo: dà lavoro a circa un milione e duecentomila persone (l’occupazione diretta è quasi raddoppiata in dieci anni) fattura circa 14 miliardi di cui un terzo dall’esportazione e se ci si mette insieme solo l’enoturismo (senza considerare l’altro enorme indotto) al conto vanno aggiunti al- tri due miliardini di euro. Ce ne sarebbe abbastanza per pigliare le vigne sul serio. E se dalle vigne si passa a tutto il comparto agroalimentare si scopre che vale più o meno un quarto del Pil e che le nostre esportazioni crescono di circa il 10 per cento mentre i consumi interni calano più o meno della stessa quantità percentuale con un massiccio ricorso all’import. A raccontarla così anche ai bambini verrebbe in mente che c’è qualcosa che non torna. Invece cosa stiamo facendo per qualificare e sostenere i consumi interni, per ammodernare il comparto agricolo, per rafforzare le nostre esportazioni avendo scoperto che nei nostri campi ci sono dei (piccoli) giacimenti di petrolio? Assolutamente niente. Eppure un nuovo modello di sviluppo in cui il settore primario torni ad essere protagonista è lì: a portata di mano. A spiegare come stanno le cose è uno studio del Monte dei Paschi di Siena – il terzo gruppo bancario italiano con forte propensione all’internazionalizzazione, ma attualmente il polo creditizio più vicino all’agricoltura – che ha affidato al suo centro ricerche un poderosissimo studio sul mercato mondiale di vino coordinato da Stefano Cianferotti. Cosa ha scoperto il Monte dei Paschi? In parte ciò che già si sapeva: le imprese agricole italiane sono deboli, sono molto indebitate, sono forse troppe, non fanno sistema e sono sole. Un dato balza agli occhi: per ogni euro di valore aggiunto prodotto le imprese agricole italiane hanno 1,4 euro di debito. E tuttavia per le banche sono buone pagatrici perché le sofferenze sono più basse di quelle dell’industria e i tassi praticati sono ormai allineati. Si sono fatte anche un po’ più accorte trasformando gran parte dei debiti per cassa in debiti a lungo termine. E del resto la banca stessa sa che il credito concesso all’agricoltura (e al vino in particolare) ha tempi lunghi. Ci sono gli investimenti, c’è il periodo di affinamento dei vini o degli altri prodotti, c’è un problema legato all’incasso. Il delta tra costi di produzione e entrate nel vino va 18 a 36 mesi. L’ideale? Avere forse imprese agricole polifunzionali capaci di generare cash con il fresco e valore aggiunto con le produzioni di maggior prezzo. L’analisi del Monte dei Paschi è precisa: si deve fare come in Francia finanziando l’affinamento dei grandi vini (e il Monte già lo fa da protagonista con il Grana e il Parmigiano Reggiano), si deve costruire un sistema coeso per andare a battere i nuovi mercati, si deve soprattutto investire di più e meglio nel marketing, si deve procedere ad aggregazioni se non di proprietà almeno operative per poter affrontare i mercati mondiali emergenti. E tra questi mercati c’è la Cina che sorprendentemente beve un sacco di vino. Purtroppo lo compra dalla Francia e la stima è che ormai in Cina si vendano più Bordeaux che nel Regno Unito che fu – giova ricordarlo – il paese che ha inventato il mercato per i grandi vini francesi. E l’Italia che fa? Arranca ora e si specchia nelle glorie di un recentissimo passato. Le nostre cifre sono buone, se viste come premessa, sono disastrose in assenza di interventi di sistema. Siamo il primo produttore mondiale con una quota del 17% ma vendiamo negli ultimi due anni a un euro e 70 centesimi al litro. Stiamo conquistando qualche nuovo mercato, ma su quelli che contano siamo sempre dietro la Francia e la Spagna fa meglio di noi. Infine abbiamo un mercato interno che è in profondissima contrazione: partivamo da 120 litri pro capite negli anni ’70 arriveremo sotto i 40 litri da qui a un paio di anni, con un consumo quotidiano appannaggio sempre di più della popolazione più anziana (che ha anche meno reddito disponibile). A fronte di un surplus produttivo mondiale di vino stimato in 50 milioni di ettolitri. Se stiamo messi così le nostre chances sono tutte all’estero: su mercati tradizionali come Germania, Usa (che si sta ripigliando) e Canada che è in buona performance di crescita. Ma le speranze stanno soprattutto in Brasile (peraltro presidiato da Cile, Australia e Argentina) e all’Est: la Russia è il nostro maggior cliente in termini di quantità, la Cina potrebbe diventarlo in valore visto che in due anni il suo import di vini di qualità è salito del 70% e lo stile di consumo è sempre più (ex) occidentale. Questo potrebbe valere per tutta l’enogastronomia. E allora che fare? Sostanzialmente tre cose: sostenere i consumi interni defiscalizzando le produzioni italiane, incrementare il sostegno all’export con promozioni efficaci (Ice se ci sei batti un colpo) e comprando canali distributivi, irrobustire la struttura delle imprese e del comparto agricolo. Il Monte dei Paschi la sua ricetta l’ha data (futures, credito all’export, factoring, anticipazioni sui fondi comunitari). Ora tocca all’Italia se a qualcuno interessa l’agricoltura. Altrimenti la Cina ci beve, ma non sarà un piacere.

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