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Libero

Nelle terre del “Barone di ferro” … Ricasoli e quel Chianti diventato vino d’Italia … Chianti, un passe par tout. Quando uno non ha un’idea per fare, chessò, un reportage sull’Italia bella e buona la butta in Chianti. Così quelle colline aspre, il cui nome geografico vuol dire fragore d’armi e di selva, sono diventate un luogo comune, uno stereotipo. Gli inglesi, che sono stati i primi innamorati di quelle terre dove la nobiltà fiorentina e senese si contendevano i (magri) profitti agrari lo chiamano il Chiantishire: molto pittoresco! E purtroppo il Chianti ha fatto di tutto per assomigliare non a se stesso, ma a come gli altri volevano che fosse. Per fortuna non ha del tutto perduto la sua identità. Non è affatto un territorio gentile: anzi è duro, arcigno. Posto da cinghiali e da guerriglia. Certo oggi è pettinato di vigne, è punteggiato da architetture d’immenso bello e le sue bottiglie - non tutte purtroppo - hanno ritrovato il nerbo antico dopo la troppo lunga ubriacatura mercantilistica che ha portato se non a rinnegare, quanto meno a snaturare il Sangiovese, con le ataviche cantine (ma alcune anche bruttissime e finte in cemento armato) che hanno sfrattato le botti da 25 quintali per far posto a barriques non sempre adatte a contenere l’idea del vino Chianti che resta comunque il più famoso vino italiano. Tra gli stereotipi del Chiantishire si annoverano la carne di Chianina che qui non c’entra nulla, la finocchiona, i cantucci, i ferribattuti e le ceramiche. Insomma tutto il campionario toscano riunito in un sol luogo, come se la Toscana non fosse una pluralità di suggestioni. Più che un territorio il Chianti ha finito per diventare un catalogo. E pensare che una ragione – soprattutto in questi mesi - per tornare in Chianti c’è, ed è densa di significati, di storia, di appartenenze. Me ne parto per questa terra che amo con in mano un libro scritto da un mio amico di raro intelletto e di esprit totalmente maremmano: il professor Zeffiro Ciuffoletti. S’intitola: “Alla ricerca del vino perfetto, il Chianti del Barone di Brolio”. Lo ha voluto Francesco Ricasoli, discendente del “Barone di Ferro”, lo ha stampato con coraggio e perizia Leo Olschki. E quel volume dovrebbe essere la vera guida per scoprire l’assoluta nobiltà del Chianti: inteso come agglomerato geoantropico, riassunto nel suo vino. Mi stupisco che non ci abbia pensato il pur attivissimo Consorzio del Chianti classico: non c’è vino migliore per brindare ai centocinquant’anni dell’Italia unita che il Chianti. Ne chiacchieravo sommessamente - per quanto una chiacchiera con lui possa essere sommessa - con Dario Cecchini (il poeta macellaio, andatelo a trovare in quel di Panzano nel Chianti fiorentino: è un’esperienza assoluta) e gli dicevo: tre vini andrebbero in quest’anno degustati: il Barolo, il Marsala e invariabilmente il Chianti. Perché lì risiede l’anima più alta, l’idea più nobile, il concentrato migliore della politica come ideale, del connubio tra agricoltura e cultura. Comincia perciò dal Castello di Brolio ineluttabilmente un viaggio alle sorgenti del Chianti, che sono anche le nostre origini. Lì Bettino Ricasoli - quello che revocò l’esilio di Mazzini, che aveva abolito la pena di morte primo nel mondo occidentale, che rimase sindaco di Gaiole a vita per testimoniare il suo legame assoluto con questa terra – successore di Cavour e primo vero presidente dell’Italia Unita - dispensava rigore politico e ricerca agronomica. Con Francesco Ricasoli provo brividi nella biblioteca del Barone di Ferro, con Francesco Ricasoli mi chiedo perché quest’anno le bottiglie di Chianti Classico non siano tutte - e sono decine di milioni - fasciate con il tricolore! Da Brolio - bellissimo - dove si dovrebbe fare quest’anno un pellegrinaggio laico si può partire per i gioielli del Chianti che stanno a metà strada tra Firenze e Siena. Non si può trascurare Radda e Castellina dove Andrea Rondini - sommo fotografo - è in grado di farvi percepire la vera magia dei paesaggio chiantigiano. E poi San Casciano in Val di Pesa e all’estremo limite meridionale Castelnuovo Berardenga, altra terra mobilissima e fiera. Ovunque ci vengono in contro Badie, come quella di Coltibuono un luogo assoluto, castelli come quello di Albola o quello da Verrazzano (sì fu la dimora del grande navigatore!) e ville patrizie come Le Corti del principe Corsini come Villa Chigi-Saracini, o borghi d’incanto come San Felice o Castello d’Ama o il Castello di Fonterutoli dove la dinastia Mazzei custodisce la prima idea del Chianti che si deve ad Ottone II imperatore del nono secolo. Sono anche tutte cantine di pregio e oggi degustando queste bottiglie che sentono le diversità del territorio - spessore nel Chianti fiorentino, profumo e corpo nella parte più centrale del Chianti senese, mineralità e finezza nella Berardenga - si comprende come l’idea di Chianti debba essere non lo stereotipo patinato, ma la ricerca di un’anima, di una storia. Forse servirebbe di nuovo Niccolo Machiavelli che albergò alla Percussina (nella casa dove oggi ha sede il Consorzio) a illuminare di nuovo intelletto queste terre. Perché queste vigne, queste foreste di lecci, queste meravigliose architetture sono l’espressione di un’idea, di un buon governo. E non c’è altro luogo al mondo dove il vino possa degustarsi non come mero piacere, ma come - per dirla con Mario Soldati - autentica poesia della terra. Il Chianti che si fa paradigma dell’Italia che fu nazione per passione.

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