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Libero

Quanti rischi nel futuro del nostro vino ... Sarà che sono livornese e riflettendo attorno alle cose delle nostre cantine mi sembra di sentire Turiddu: “È il vino che m’ha suggerito, per me pregate Iddio”. Continuando a magnificare i successi delle nostre bottiglie si sta nascondendo una verità purtroppo amara. Il vino sta scivolando nella crisi e l’export non brilla poi come si dice. In Usa continuiamo a vendere bene, ma in Europa il clima è da Cavalleria Rusticana. Su due versanti: quello commerciale e quello politico-istituzionale. Sul mercato italiano va in scena una tragedia: altro che il meraviglioso atto unico di Pietro Mascagni! Le aziende vitivinicole sono strozzate dall’Imu, gli incassi slittano a 180 -200 giorni e gli oneri finanziari diventano sempre meno sostenibili, il consumo interno è ai minimi storici. Guardando fuori si scopre che il mercato europeo si sta polarizzando e la Germania, nostro principale cliente, chiede bottiglie di prezzo sempre più basso, mentre la Russia si prepara a incassare il pizzo sotto forma di dazi. Non va meglio in Brasile. Non c’è nessuna diplomazia italiana di tutela del nostro prodotto. Nel mondo le cantine devono fare da sole perché non hanno alcun sostegno commerciale, né di accordi né di assistenza all’export. In Canada le trattative con i monopoli sono affidate alle singole cantine. In Cina i francesi hanno fatto accordi a livello di Paese, noi se non fosse per Vinitaly non ci saremmo neppure. Continuando di questo passo le magnifiche sorti e progressive del nostro vino che vale 14 miliardi di fatturato di 4,4 all’export e che mantiene 1,2 milioni di persone, attinge quasi zero dai contributi europei e paga i mutui con una regolarità sconosciuta a tutti i settori industriali rischiano di essere un pallido ricordo. I grandi consorzi si stanno attrezzando da soli. Lo fa il Chianti classico, lo fa il Franciacorta. Ma il resto? Possiamo continuare con 540 Doc? O è l’ora di ragionare - come ha fatto la Sicilia in stato di necessità - di macro denominazioni regionali per valorizzare le produzioni di base e salvaguardare mantenendole esclusive le grandissime: Brunello, Barolo, Amarone, tanto per dirne tre di valore assoluto? Perché una cosa è sicura se passa la deregulation in Europa con la possibilità di piantare vigna ovunque e comunque per l’Italia sono dolori. Bene ha fatto la Confagricoltura di Mario Guidi a dedicare un convegno a questo problema. Benissimo ha fatto Paolo De Castro - presidente della commissione agricola di Strasburgo - a dire che l’Italia non voterà la Pac se non cambia. Ma a livello di Governo, ma anche di sistema vino c’è la consapevolezza di quanto stiamo rischiando? Serve una razionalizzazione delle Doc, serve una vera promozione all’estero sfruttando meglio i fondi Ocm, serve che i Consorzi facciano il loro nuovo mestiere di sostegno alle aziende e investano soldi anche sul mercato interno, serve una fortissima iniziativa in Europa per difendere i diritti di reimpianto, la specificità e la qualità del nostro vino. Per ora comandano i gattopardi: quelli che con un po’ di facite ammuina si sistema tutto. Non è così: sul vino siamo alla Cavalleria Rusticana. Ma quando il coro annuncia “Hanno ammazzato compare Turiddu” cala il sipario. A teatro si replica, in economia no.

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