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AI TEMPI DEL CORONAVIRUS

L’Italia chiude i battenti: le difficoltà dell’agroalimentare all’estero, il crollo dei consumi

Al centro, la comunicazione, sbagliata o falsa: paga tutta la filiera, dal campo alle vendite al dettaglio. L’analisi del professore Mattiacci
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Il made in Italy sotto attacco

L’Italia chiude i battenti. Con il decreto del Governo varato ieri, contenente le misure per cercare di contenere l’epidemia di coronavirus, scuole ed Università sospendono le attività fino al 15 marzo, il campionato di calcio si giocherà a porte chiuse per un mese intero, sospesi gli eventi affollati, limitazioni a cinema e teatri, per tutti distanza di sicurezza di un metro. Insomma, dovremo mettere da parte per un po’ le nostre abitudini, la nostra socialità, la nostra voglia di stare insieme. Ma senza perdere il lume della ragione, come sembra invece stia accadendo fuori dal Belpaese, dove tra l’ironia pecoreccia della tv francese ed il solito uragano di fake news, che dal web - e non solo - si abbatte sulla realtà ogni volta che il mondo vive un momento di crisi o difficoltà, portando con sé una narrazione sbagliata e dannosa sui rischi legati alle produzioni dell’agroalimentare made in Italy.
Narrazione che porta - inevitabilmente - alla paura, assolutamente infondata ma sufficiente a mettere in difficoltà, casomai ce ne fosse bisogno, un intero settore, con importatori e buyer che chiedono ai produttori del Belpaese attestati che certifichino la salubrità di formaggi, frutta, verdura, ed il Governo che, attraverso una lettera firmata dal Ministro degli Esteri Luigi di Maio e dalla Ministra delle Politiche Agricole Teresa Bellanova, ha chiesto all’Oms di pronunciarsi, ribadendo l’assoluta salubrità dell’agroalimentare made in Italy e la totale infondatezza di richieste del genere. Anche perché, come si può leggere tra le linee guida del Ministero della Salute, “le malattie respiratorie non si trasmettono con gli alimenti”, aspetto ribadito in più di un’occasione anche dal professore Roberto Burioni, Ordinario di Microbiologia e Virologia alla Facoltà di Medicina del San Raffaele di Milano e tra i massimi esperti al mondo in materia, ricordando che il contagio “avviene sempre per via respiratoria e mai attraverso il cibo, anche se crudo”.
Il danno, però, è fatto, e se da una parte il Governo ha già stanziato 716 milioni di euro per un nuovo piano export che mira a difendere i prodotti italiani - non solo quelli dell’agroalimentare - sotto attacco all’estero per l’emergenza coronavirus, ci sono Regioni, come il Veneto, al cuore dell’emergenza, che si muovono autonomamente per “Liberare le merci e i prodotti agricoli dalla paura surreale e irrazionale del coronavirus rilanciando la sicurezza e la qualità dell’intera filiera agroalimentare del made in Veneto e reperire manodopera stagionale per non fermare le attività sui campi e la raccolta di asparagi, fragole, ortaggi di serra, ciliegie”, come si legge nel comunicato dell’assessorato all’agricoltura. Che mette sul tavolo un’ulteriore problematica, quella del lavoro. Gli stagionali, spesso stranieri, stanno tornando a casa, e difficilmente, in queste condizioni, con la quarantena imposta a chi torna da Veneto e Lombardia anche dalla Romania, torneranno per la raccolta, mentre la Coldiretti apre un altro fronte, quello dei trasportatori stranieri, che non vogliono attraversare la frontiera per paura del coronavirus, ma in un Paese come l’Italia, dove l’88% dei trasporti commerciali avviene su gomma la paura che blocca i Tir rischia di paralizzare l’intera filiera agroalimentare.
Il che non fa che aggravare ulteriormente la situazione, con il crollo del turismo dall’estero che si abbatte su ogni settore del commercio e dell’ospitalità: fioccano le disdette, calano i consumi fuori casa, si svuotano gli aeroporti, ed i pubblici esercizi, riuniti nella Fipe, fanno i primi conti: 50 milioni di euro cancellati ogni giorno, fanno dei pubblici esercizi italiani il comparto più colpito dagli effetti del coronavirus. Ed il 72,7% delle attività ritiene che la crisi durerà ancora a lungo, con un peggioramento nei prossimi due mesi e forti diminuzioni del fatturato, con punte fino all’80%. Una prima stima calcola in 4 miliardi di euro le perdite di fatturato del settore in tre mesi, che valgono circa 1,5 miliardi di euro in termini di valore aggiunto. “Crollo della mobilità e della socialità sono il combinato disposto che sta compromettendo, su tutto il territorio nazionale, la sopravvivenza di molte imprese, a cui si contrappone sino ad oggi la mancanza di provvedimenti utili per accompagnare la gravità del momento”, commenta la Fipe.
Un momento che, ci auguriamo il più presto possibile, ci metteremo alle spalle, ed allora ci sarà bisogno di ricostruire e rilanciare un’immagine se non danneggiata di sicuro appannata. E ci vorrà lo sforzo di tutti, “dalla classe dirigente politica a quella imprenditoriale - spiega a WineNews Alberto Mattiacci, docente di Marketing e Business Management all’Università La Sapienza - affinché si capisca finalmente che la comunicazione non è forma, ma sostanza. Questa crisi ci dimostra che una comunicazione mancante, o sbagliata, come quella che è stata fatta fino ad ora nel Paese e dal Paese all’esterno, ha un impatto profondo sull’economia. Impariamo da questa situazione, con umiltà, che la comunicazione è un mestiere, è tecnica, non si improvvisa, ed ha un impatto diretto sui valori economici”. In questo senso, le aziende “semplificando, devono affrontare in primis il grande tema della distribuzione: le aziende italiane sono molto brave a fare i prodotti ma devono prendere atto che la distribuzione è fondamentale, bisogna stringere delle alleanze in modo che la distribuzione stessa condivida l’interesse a trasferire al consumatore il valore delle produzioni italiane. Il secondo punto - continua Mattiacci - riguarda la necessità di piani di lungo periodo, dai cinque anni in avanti, per lavorare sulla reputazione, delle denominazioni e delle aziende. Facendo i conti con quanto sta succedendo con il coronavirus, c’è un ulteriore insegnamento da trarre: a meno che non si tratti di multinazionali, che in Italia sono davvero poche, da solo non ce la fa nessuno. Bisogna mettersi insieme - tra denominazioni e consorzi - e lavorare sul lungo termine per ricostruire quella reputazione che i nostri prodotti comunque hanno”.

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