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Lo stato dell’arte della ristorazione, le tendenze, la nuova identità della cucina italiana che si esporta all’estero, la necessità degli chef di essere sempre più anche imprenditori: a WineNews Enzo Vizzari, direttore delle Guide de “L’Espresso”

Non Solo Vino
Enzo Vizzari

“C’è una fascia di ingresso della ristorazione molto vivace, perché si sono moltiplicati i luoghi del mangiare: fast food, street food, pizzerie, piadinerie, hamburgerie, gastronomie che dalla prima colazione ai piatti veloci, dall’aperitivo alla cena, offrono di tutto. Ed è una fascia a cui si rivolge anche chi mangia fuori per necessità, e non solo per piacere. Poi c’è l’alta ristorazione che non se la passa benissimo, ma che in qualche modo resiste. Quella che soffre moltissimo è la fascia intermedia, perché è quella che dovrebbe regalare esperienze gastronomiche ad una clientela che ha tagliato i consumi, perché il mangiare per piacere e non per necessità è uno dei primi tagli di spesa che si fanno. E io vedo i dati della Fipe, e il saldo tra aperture e chiusure è ancora pesantemente negativo”. Ecco lo stato dell’arte della ristorazione italiana fotografato a WineNews da Enzo Vizzari, direttore delle Guide de L’Espresso, che oggi alla Stazione Leopolda di Firenze ha presentato “I Vini d’Italia” e “I Ristoranti d’Italia” 2015. “Una guida che è un’inchiesta tra i ristoranti del Belpaese che dura un anno, fatta con regole precise e non antagonista di altri mezzi, e che ha senso di esistere anche a livello economico, altrimenti il nostro gruppo editoriale, che non fa poesia, legittimamente la accantonerebbe”, aggiunge Vizzari.
Che parla anche delle tendenze di oggi tra i fornelli. Come quella che vede sempre più chef partire dal loro ristorante-simbolo per aprire più locali, con proposte diverse, magari più economiche. È qui il futuro?
“No. O meglio: è vero che ci sia la necessità di cogliere opportunità e di fare ristoranti con un’offerta diversa, e va benissimo. Ma il presidio dell’alta ristorazione - precisa Vizzari - deve essere nell’alta qualità. Ci si deve mettere in condizioni di far girare gli investimenti, dopo di che l’alta ristorazione, purtroppo, non può fare a meno di una presenza assidua e costante e di un impegno degli chef che, non sempre, può conciliarsi con altre cose a latere”.

E l’innovazione, oggi, che spazio ha?
“Per principio sarebbe corretto dire che deve esserci molto spazio, ma onestamente, in termini di innovazione è stato fatto già veramente molto. C’è ancora spazio, ma sicuramente negli anni tra il 2000 e il 2010 sono stati fatti passi molto importanti, credo che sia difficile andare molto oltre”.
Le cucine d’Italia, secondo molti, sono da sempre figlie di contaminazioni con altre culture e cucine. È ancora così? E se è vero, da dove arrivano oggi e da dove arriveranno domani le contaminazioni più influenti?
“Io non sono così convinto che le cucine d’Italia, tutte, portino in sé il seme delle contaminazione. Vale per certe Regioni di confine, leggi Piemonte con l’influenza francese, per esempio, o le Regioni del Nord Est ... se parliamo della Toscana non vedo grandi contaminazioni, come nel Lazio. In Sicilia ci si perde nella notte dei tempi. Semmai, si è sempre detto che la cucina italiana in quanto tale non esiste, perché c’è un insieme di cucine regionali. Oggi anche questo secondo me è molto meno vero. Le cucine regionali ci sono, e hanno un forte imprinting in certi ristoranti che le mantengono. Però ci sono i migliori ristoranti, quelli che, per capirci, chiamo gli esponenti della nuova cucina italiana, che sono andati oltre, che sintentizzano il patrimonio del meglio delle cucine regionali, ci aggiungono del loro, ci mettono creatività, e mantengono una forte identità che non è più regionale, ma italiana. Negli ultimi sei mesi ci sono state aperture di cuochi italiani top, ai vertici della nostra guida, all’estero. Da Bottura a Istanbul a Scabin a New York, fino ad Alajmo a Parigi. Stiamo esportando il vero made in Italy perché questi chef sono i rappresentanti della nuova cucina italiana, che è assolutamente aperta a nuove tecniche ma con una forte identità italiana.
Quali sono, oggi, i punti critici per chi fa ristorazione di qualità?
Una battuta sarebbe “far tornare i conti”. In realtà io insisto su questo: abbiamo visto, negli ultimi anni il ridimensionamento o la chiusura di tanti ristoranti. Ebbene: mai come oggi, prima di essere grandi chef, è indispensabile essere imprenditori. Non c’è più spazio per l’improvvisazione. Troppi credono che basti saper cucinare bene, saper gestire bene la sala, ma non è sufficiente. La ristorazione, col passare del tempo, non può non essere un’attività anche economica, e di conseguenza se non si è anche imprenditori, non si sta in piedi.
Oggi c’erano 1.000 persone alla Leopolda. Vuol dire che le guide non sono finite.
Le nostre Guide hanno ragione d’essere, si reggono economicamente, siamo in un gruppo editoriale che non fa poesia, se non dovessero più avere un peso anche economico verrebbero legittimamente accantonate, e questo ad oggi non è successo, i numeri ci danno ragione. Le mie due Guide, almeno, assolutamente non vanno immaginate come alternative o in contrapposizione al web o altri mezzi, sarebbe un errore. Facciamo mestieri diversi, nel nostro caso la Guida dei ristoranti è un’inchiesta che dura un anno, fatta con criteri definiti, con persone più o meno ben pagate, con regole precise, che poi ha una sua versione app e on line, che verrà potenziata. Quindi non siamo né alternativi né concorrenziali, facciamo un mestiere diverso, e io sono convinto che la qualità è riconosciuta nei contenuti di chi scrive e fa una guida, e non dal mezzo che la contiene”.

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