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Panorama / Economy

Bacco, mattone e figlie … Tre settori di attività, tre figlie alle quali lasciare tutto. La Moretti di Brescia spazia dalle costruzioni al vino, fino agli alberghi. E oggi il suo fondatore annuncia: fra tre anni esco dall’azienda. Così è stato siglato un patto di famiglia che divide l’impresa in tre quote uguali. Con regole per decidere chi sarà il vero successore al timone. Di solito, quando un imprenditore diventa ricco, scopre la passione per l’edilizia e per il settore immobiliare. Nel caso di Vittorio Moretti, classe 1941, il percorso è stato esattamente all’inverso. E’ partito dal nulla, come manovale e capomastro, poi si è messo a costruire appartamenti per i familiari e qualche capannone industriale. E, appena ha raggiunto un buon livello di liquidità ha iniziato a diversificare. In quale direzione? Vigneti, alberghi, ristoranti, cantieri navali. Fascia alta, lusso. Risultato: il gruppo Moretti oggi vale circa 73 milioni di euro di fatturato, con 600 dipendenti, un ampio campo d’azione che spazia dall’edilizia al turismo, passando per la nautica da diporto. E con tre figlie in arrivo sul ponte di comando.
Che tipo di imprenditore si considera? Un imprenditore fortunato: faccio solo quello che mi diverte. E ci guadagno.
Primo affare? La villetta di mia zia a Erbusco, vicino a Bergamo: 15 milioni per 350 metri quadrati. Ricordo l’apertura del cantiere, in pieno agosto: mia zia era convinta che i lavori sarebbero andati per le lunghe.
E invece? Passarono soltanto cinque mesi e le consegnai la casa. Il panettone, la zia, lo mangiò nella villa che era stata costruita dai miei operai.
Chi arrivò, dopo la zia? Nella zona di sparse la voce dei miei prefabbricati. Costavano poco e si montavano rapidamente. Così arrivarono clienti più facoltosi.
Industriali locali? Anche. Feci alcuni capannoni con usi diversi, dalle fonderie a degli uffici, ma tutti in prefabbricato.
E lei faceva il capomastro. All’inizio provai a seguire mio padre, ma non andavano d’accordo. Mentalità troppo lontane. Così frequentai una scuola professionale e iniziai a lavorare in proprio. Poi una mano me l’hanno data i comunisti.
I comunisti? E come mai? Agli inizi degli anni Settanta, in Italia, c’era l’incubo del sorpasso: il Pci sembrava destinato a superare la Dc. E così molti proprietari terrieri hanno venduto i suoli a due lire per portare i soldi in Svizzera. Per me è stato la grande occasione.
Loro vendevano, lei comprava. Esatto. Alle porte di Erbusco iniziai a comprare una casa e un terreno con l’idea di fare un buon vino da bere con gli amici. Piano piano gli acquisti sono andati avanti e oggi a Erbusco facciamo lo spumante “Bellavista” che se la gioca alla pari con gli champagne francesi.
E’ vero che ha costruito 120 cantine con i suoi prefabbricati? Il prefabbricato è stato la mia vera scommessa imprenditoriale. E ora posso dire di averla vinta. All’inizio, è vero, ci credevanno in pochi: poi c’è stato il boom e io ho potuto cavalcarlo. Ma, mi creda, ho passato tante di quelle notti insonni, con l’incubo dei debiti.
In realtà io le chiedevo delle cantine in prefabbricato. E’ vero, ne ho fatte 120, dalla Sicilia al Trentino. E ho deciso di fare anche la mia con questa tecnica.
Si chiama Petra ed è disegnata dal grande architetto Mario Botta. Tutto secondo la moda … La firma d’autore fa parte del marketing di un prodotto. L’ho imparato girando la regione dello Champagne: attorno ai vigneti i francesi hanno costruito un’industria a 360 gradi. Alberghi, ristoranti, golf, fitness, prodotti alimentari. Tutto di altissima qualità e con un favoloso giro d’affari.
Quanto le è costato Botta? Ho avuto un prezzo da amico: circa mezzo miliardo di vecchie lire.
Il modello francese lei lo ha importato in Franciacorta. A due passi dalle cantine, ho fatto l’albergo L’Albereta con la cucina di Gualtiero Marchesi e il centro benessere affidato a Henri Chenot. Due bei nomi nel mondo del lusso.
Sono tutte idee sue? Marchesi mi fu presentato da Gianni Brera, entusiasta del mio progetto. “cerco uno chef da una stella Michelin” dissi a Marchesi, quando Gianni me lo presentò. E lui rispose: “Vengo io”. Dopo una settimana già parlavamo della struttura del ristorante.
I ristoranti di Gualtiero Marchesi non sono andati sempre bene. Forse prima ne aveva troppi. Adesso gira il mondo solo per consulenze, ma il suo ristorante è all’Albereta. A casa mia.
Marchesi è socio o solo inquilino? E’ un inquilino, proprio come Chenot. La società, invece, l’ho fatta insieme con il gruppo francese di Alain Ducasse, che oggi gestisce 22 ristoranti nel mondo.
Dove avete aperto il ristorante? A Castiglione della Pescaia, nella Tenuta La Badiola, un’antica residenza del granduca di Toscana. Abbiamo comprato 500 ettari di vigneti e oliveti, e nella zona abbiamo sistemato il ristorante di Ducasse. Siamo soci: io al 51%, lui con il 49.
E guadagnate? Non ancora. L’investimento è stato molto importante: abbiamo bisogno di tempo per ammortizzare i costi e per affermarci nel segmento degli alberghi e dei ristoranti di lusso.
Quanto vino riesce a produrre nelle sue tenute? Un milione e mezzo di bottiglie. Con una quota di esportazioni pari a circa il 20%: ancora troppo poco.
Forse è così anche perché il vino italiano, obiettivamente, costa un poco troppo. Giusto. Però non è il nostro caso: siamo a una media di 11 euro a bottiglia. Una cifra ragionevole.
L’anomalia dei prezzi folli del vino made in Italy riguarda tutto il settore. Alcuni produttori di vii italiani avevano perso la testa, magari aiutati da qualche amichevole recensione sui giornali. Adesso, con la crisi, hanno dovuto rimettere i piedi per terra e i prezzi sono scesi. In ogni caso, non dimentichi che per me il vino è anche un volano.
Vuol dire che è un marchio per lanciare altre attività. Il maggiore futuro, per il nostro gruppo, lo vedo nel settore alberghiero. Il patrimonio italiano è gigantesco e ancora poco utilizzato. Specie nelle regioni meridionali.
Dove acquisterebbe un albergo? In Sicilia, domani mattina.
L’ultima diversificazione di Moretti: i cantieri navali. Volevo farmi una barca, e ho comprato il cantiere navale Maxi Dolphin. Facciamo barche a vela, con scafi in vetroresina e coperte in teak massiccio, da dieci fino a quaranta metri li lunghezza.
Parliamo un poco della nuova generazione: come pensa di affrontare questo delicato passaggio? Ho affidato la pratica allo studio Ambrosetti e, per il momento, abbiamo sottoscritto un patto di famiglia. Con regole di ferro.
Chi sono gli eredi? Ho tre figlie, tutte già in campo: Carmen è la vicepresidente del gruppo ed è responsabile della comunicazione, Francesca è enologa e si occupa del settore vino; Valentina, appena sarà laureata in architettura, entrerà nel gruppo per occuparsi delle costruzioni.
Il suo sembra uno schema ormai classico del capitalismo made in Italy: divide ed impera. No, io divido per andare in pensione. Adesso tocca a loro. Qualche tempo fa le ho riunite intorno a un tavolo e ho detto: “Ragazze, prima di farmi spendere soldi con i consulenti, ditemi se volete continuare la mia attività”.
E loro? Hanno risposto in coro: vogliamo continuare.
Ha già stabilito anche in quale modo sceglierà tra di loro il suo successore? E’ scritto nel patto di famiglia. Conteranno le capacità, i consigli dei consulenti, e poi ci sarà la mia parola finale.
Vede? Lei non arretra. Tre anni, solo tre anni e vado via. Tra l’altro, nel patto è scritto anche il limite di età: 70 anni bisogna togliersi dalle scatole. E io mi atterrò alla regola. Ma non lascio l’azienda senza avere risolto il problema della successione.
Che cosa succede, però, se le tre sorelle dovessero cominciare a litigare? Semplice: una sorella vende e le altre due comprano la sua quota. In azienda non si può mai litigare, è un lusso assolutamente insostenibile.
Il lavoro tra le figlie lo ha diviso secondo i settori: e le quote? Uguali.
Nella holding di famiglia o in ciascuna delle varie società? Ogni figlia ha una maggiore partecipazione nel settore dove è impegnata in prima persona. Ma il valore complessivo delle tre quote sarà identico per tutte. A casa mia non voglio discriminazioni.
Esclude la Borsa? Nella mia vita di imprenditore sono stato sempre un solitario. A parte qualche specifica iniziativa, come quella avvenuta con Ducasse.
Ma la Borsa non serve soltanto per avere dei nuovi soci. Già, serve anche per avere soldi. E noi per fortuna non ne abbiamo bisogno: possiamo crescere con le nostre forze.
Ha un programma anche per il suo pensionamento? Sempre lo stesso: divertirmi. Però sapendo che la mia azienda, e tutto quanto il lavoro che ho messo dentro, sono in ottime mani. (arretrato di Panorama-Economy del 23 giugno 2006)
Autore: Antonio Galdo

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