02-Planeta_manchette_175x100
Allegrini 2024

Panorama / Economy

Dop a confusione garantita ... In Italia ci sono quasi 500 marchi riconosciuti e altri 200 sono in lista di attesa. Però rappresentano solo il 16% del Pil del settore. La Francia si ferma a 350, ma così protegge il 40% della produzione. Il primo a lanciare l’allarme è stato Alberto Zilocchi, presidente dell’Associazione mantovana allevatori, una delle più importanti d’Italia. “Nel nostro Paese” ha detto “ci sono troppe denominazioni di qualità. In settori come le carni, i vini e il lattiero-caseario, questo atteggiamento rischia di creare più confusione che benefici”.
A quello di Zilocchi, negli ultimi mesi, si sono affiancati altri pareri eccellenti: dal Consorzio vini piacentini a Giampietro Comolli, numero uno dell’Associazione italiana sommelier e un passato in Franciacorta e Ferrari. L’ultima stoccata è arrivata da Giuseppe Liberatore, presidente dell’Associazione dei consorzi di indicazione geografica (Aicig): “La moltiplicazione di marchi rischia di banalizzarne il ruolo: occorrono procedure di assegnazione più severe”. Dopo anni di proliferazione, insomma, l’eccessiva presenza di Dop e Doc rischia di trasformarsi in un boomerang per la nostra filiera agroalimentare. In Italia le etichette attive sono ormai quasi 500: di queste, 155 tutelano l’origine dei prodotti e altre 336 riguardano le loro caratteristiche o il tipo di lavorazione. Ma non è finita, perché secondo la stessa Aicig sono almeno 200 le denominazioni ancora in attesa di riconoscimento presso la Ue o il ministero dell’Ambiente. Il totale degli alimenti e dei vini “protetti” arriva quindi a sfiorare le 700 unità: un record mondiale, se si considera che la Francia, il competitor che ci tallona più da vicino, raggiunge a malapena quota 350.
Inflazione di marchi. Ma il dato più eclatante è quello economico, perché oltralpe le certificazioni di qualità valgono il 40% del Pil alimentare. Mentre quelle italiane, nonostante l’inflazione di marchi registrati, con 16 miliardi di euro raggiungono a stento il 15% del totale. “Il numero dei marchi di garanzia in Italia è probabilmente esagerato rispetto all’offerta e al consumo effettivi” ammette Luigi Consiglio, della società di consulenza Gea ed esperto del settore alimentare. “Di certo è un segnale importante di vitalità. Ma dal punto di vista strategico è una scelta infelice, dato che la maggior parte di queste etichette esiste solo sulla carta e dunque non contribuisce in alcun modo alla promozione del made in Italy”.
Un riconoscimento. In effetti l’85% della produzione certificata riguarda solo un centinaio di categorie, in grado di fare leva su volumi commerciali elevati: dal prosciutto di Parma al Chianti classico, dal Parmigiano reggiano alla mela del Trentino. Agli altri restano solo le briciole. Ma anche in questo caso il gioco può valere la candela. “Nel mercato alimentare il valore percepito dei prodotti è in continuo calo” spiega Antonella Altavilla, senior manager e responsabile consumer retail market di Kpmg. “Il consumatore finale ha bisogno di segnali di riconoscimento maggiori rispetto al prezzo e, anche se da un punto di vista oggettivo la proliferazione di Doc e compagnia genera confusione, per le imprese si tratta di una mossa utile a far emergere una propria identità”.
Ecco perché, favoriti dalle maglie larghe di una legislazione non sempre impeccabile, le etichette di tutela rischiano a volte di trasformarsi in semplici esche, come dimostra il caso di alcune aree del Piemonte che a fronte di pochi ettolitri di olio e vino possono contare su una decina di indicazioni diverse. “Una situazione” nota Altavilla “che penalizza i veri produttori di nicchia, costretti a frenare gli investimenti in ricerca e a scendere a patti con la grande distribuzione”. Eppure le denominazioni (Dop e Igp in particolare) erano state introdotte proprio per distinguere le realtà produttive “tipiche” dai prodotti di massa, completando un disegno strategico e di garanzia inaugurato con i vini. Forse, per tornare alle origini, occorre una cura dimagrante.

Certificazioni di origine
Presenti dal 1992, sono le più ambite dai produttori, ma anche quelle che richiedono i vincoli più severi. Si dividono in Dop (denominazione di origine protetta) e Igp (indicazione geografica protetta). Le prime garantiscono la sostanziale inimitabilità - per ingredienti ma anche per caratteristiche artigianali di lavorazione - di un prodotto al di fuori di una singola area, per le seconde è sufficiente che la produzione abbia luogo nel territorio di origine.
In Italia 155
Fatturato 9 miliardi

Certificazioni di qualità
La più antica di tutte è la Doc (denominazione di origine controllata), che risale al 1969. La Docg (denominazione di origine controllata e garantita) è invece riservata ai vini e sottoposta a controlli più rigidi. I prodotti Igt (indicazione geografica tipica) non garantiscono la qualità, ma solo la provenienza locale degli ingredienti. La Stg (specialità tradizionale garantita) è stata pensata invece per tutelare il metodo di lavorazione.
In Italia 336
Fatturato 6,5 miliardi

Copyright © 2000/2024


Contatti: info@winenews.it
Seguici anche su Twitter: @WineNewsIt
Seguici anche su Facebook: @winenewsit


Questo articolo è tratto dall'archivio di WineNews - Tutti i diritti riservati - Copyright © 2000/2024

Pubblicato su ,