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Panorama / Economy

Le nuove vie del vino ... Matteo Lunelli. “Il mio obiettivo è portare lo spumante italiano in Cina e India” dice l’amministratore delegato di Cantine Ferrari. Dove si è concluso il passaggio generazionale... Le bollicine italiane battono lo champagne 320 milioni di bottiglie a 260. Il 2009 è stato l’anno dell’agognato sorpasso, ma Matteo Lunelli, 36 anni, amministratore delegato di Lunelli spa, la holding a cui fanno capo le Cantine Ferrari, fondate nel 1902, non si lascia andare a facili entusiasmi. Terza generazione, figlio di Giorgio e nipote di Gino Lunelli, Matteo è un bocconiano che prima di arrivare in azienda si è fatto le ossa per cinque anni alla banca d’affari Goldman Sachs. “Questo è un risultato importante per tutto il movimento italiano, ma dobbiamo considerare il contesto economico in cui ci troviamo: non possiamo ignorare la leva del prezzo e lo champagne, in media, costa ancora di più”. Come a dire che in qualche modo la freccia per il sorpasso è stata accesa dalla recessione: se al brindisi non si vuole rinunciare, si può comunque cercare di risparmiare. Più interessante invece il dato relativo allo spumante metodo classico che, prodotto come lo champagne, rappresenta il vertice qualitativo delle bollicine made in Italy. “Ne sono state vendute 23 milioni di bottiglie e durante le feste lo champagne ha perso il 12%, mentre il nostro metodo classico ha guadagnato l’8%”.

Eppure il 2009 è stato un anno difficile per il mercato del vino...

È vero, ma lo spumante si è difeso bene perché rappresenta un vino moderno, giovane. E poi ci sono anche due aspetti sociali: le bollicine sono uno stimolo a stare insieme, ma soprattutto incontrano sempre di più i gusti delle donne, grandi consumatrici.

Al punto che tra gli addetti ai lavori si dice che nel 2009 Ferrari abbia superato Berlucchi. Le risulta?

Non ho ancora visto i dati finali, però posso dire che noi abbiamo registrato un grande fenomeno di destoccaggio. Nei magazzini le scorte si sono ridotte parecchio e gli ordini dei primi tre mesi confermano un ottimo trend. Poi è vero che abbiamo una quota di mercato sul metodo classico del 25% e che rappresentiamo metà dell’export italiano.

Insomma sui numeri è difficile stilare una vera classifica, ma per quanto riguarda il marchio?

Ci stiamo lavorando molto. Il 2009 è stato un anno ricco di eventi importanti. Penso al brindisi all’ultimo G8 all’Aquila con il nostro spumante, ma anche alle Olimpiadi di Vancouver dove gli atleti di Casa Italia e Casa Russia hanno festeggiato con le nostre bollicine. Insomma stiamo cercando di rendere i nostri vini visibili in tutto il mondo. Poi a novembre abbiamo presentato anche la prima etichetta con il nome di famiglia: il Ferrari Riserva Lunelli.

Un evento che di fatto ha concluso un passaggio generazionale iniziato da qualche anno.

Si tratta di un progetto iniziato dalla seconda generazione della famiglia, con la vendemmia del 2002, e completato da noi che siamo la terza. Il passaggio delle deleghe operative era già stato fatto da qualche anno, ma simbolicamente si tratta di un segnale importante.

Un’azienda con una famiglia così numerosa potrebbe essere la preda ideale per un fondo.

Non credo, perché non abbiamo necessità di capitali esterni. Le operazioni finanziarie non ci interessano. Siamo sani, abbiamo un fatturato consolidato di 70 milioni di euro e siamo convinti che la famiglia sia un valore aggiunto. Abbiamo delle regole che per noi sono come una carta costituzionale, ma che soprattutto sono condivise da tutti, a cominciare dall’innovazione nel segno della tradizione.

Per molte imprese italiane, però, la famiglia rappresenta un limite.

È un rischio che abbiamo sempre scongiurato. La famiglia è un punto di forza, ma siamo consapevoli del valore che hanno i nostri collaboratori. Non potremmo mai farne a meno.

Sembra che l’unico tallone d’Achille di Ferrari sia la presenza internazionale.

Per ora siamo arrivati in Germania, Giappone, Russia e Stati Uniti, ma c’è ancora molto da fare. In futuro puntiamo a Cina e India. All’estero c’è spazio per crescere e anche questo rappresenta un passaggio generazionale. I nostri genitori hanno consolidato il marchio in Italia, noi dobbiamo mantenere la posizione e guardare all’internazionalizzazione. Ma è chiaro che si tratta di un progetto di ampio respiro.

E come?

Intanto continuiamo a investire. In piena crisi economica non abbiamo tagliato gli investimenti in marketing e comunicazione, anzi vogliamo aumentarli per rubare quote di mercato e offrire valore. Poi è fondamentale il rapporto con i partner della distribuzione. Penso anche a operazioni di comarketing con altri brand del made in Italy. E poi eventi.

Di che tipo?

La scorsa estate abbiamo aperto uno Spazio a Porto Cervo, quest’inverno un altro a Madonna di Campiglio: in questo modo vogliamo creare un legame anche con gli stranieri. La vera sfida, però, è far trovare gli stessi prodotti al ritorno a casa.

La crisi ha messo in difficoltà tante aziende. Molte sono in vendita. Pensate a delle acquisizioni?

Ci sono tante opportunità. Il settore è molto frammentato, si tratta di un mercato sempre più complesso e noi non escludiamo qualche operazione. Difficile però che accada quest’anno. Anche le storiche cantine dell’amarone Quintarelli sono in vendita. Noi, però, non le abbiamo mai
guardate.

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