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Panorama / Economy

Dà un giro di vite anche al vino ... È leader mondiale dei tappi, ma non di sughero. La piemontese Guala Closures debutta al Vinitaly. E punta a conquistare i puristi... Diciamocelo: a vederlo può sembrare un’eresia, e non a caso i puristi storcono il naso. Ma nell’annosa diatriba sulla migliore tappatura per il vino, tocca tener conto di un competitor sempre più agguerrito: il tappo a vite. Snobbato da italiani e francesi, è richiestissimo dai mercati australiano, neozelandese, argentino e britannico. Oggi nel mondo su un mercato annuo stimato di 20 miliardi di bottiglie di vino, il 17% ha il tappo a vite, numero in costante aumento. Ed è di pochi giorni fa la notizia che nel 2012 Penfolds (divisione wine del colosso australiano della birra Foster’s), commercializzerà un vino rosso da 550 dollari a bottiglia in produzione limitata, proponendo al momento della vendita l’imbottigliamento in sughero o a vite.

Leader mondiale nella progettazione e produzione di tappi a vite per il vino (inventati dalla francese Pechiney nel 1970) è una multinazionale di Alessandria, Guala Closuies. Fondata nel 1954 e oggi presente in 4 continenti, con 23 stabilimenti produttivi e quattro centri di ricerca. Tutto iniziò quando, all’inizio degli anni Duemila, i Paesi dell’emisfero australe iniziarono a esportare i loro vini. “Il vino, come è noto, viaggia male” spiega a Panorama Economy Marco Giovannini, presidente e amministratore delegato di Guala Closures, che per la prima volta parteciperà al Vinitaly con le sue innovative chiusure.

“Per arrivare dalla Nuova Zelanda a Bristol, per esempio, una bottiglia ci mette sei settimane, passando dalla primavera all’inverno, per l’Equatore. Inoltre, i numeri prodotti da questi Paesi erano grandissimi: servivano perciò enormi quantità di sughero. Questo portò a sfruttare la corteccia il più possibile, spingendosi sempre più vicino al terreno, dove proliferano i funghi responsabili del sapore di tappo”. La percentuale di bottiglie che tornavano al produttore era così del 7-12%, contro un normale 2,5%. Un problema enorme per un Paese come la Nuova Zelanda, dove il vino è un punto di forza dell’export. “Fecero degli esperimenti col tappo di plastica, quello comunemente detto di silicone, ma si rivelò difettoso quanto il sughero di scarsa qualità”. Nel frattempo, uno studio dell’Australian Wine Research Institute aveva decretato la chiusura a vite la migliore per preservare e trasportare il vino. “Così, durante un viaggio in Nuova Zelanda nel 2003, proposi al governo e a un produttore locale i nostri tappi. Due anni dopo l’allora primo ministro Helen Clark inaugurava il nostro stabilimento”.

Ma oltre che al problema del trasporto, il tappo a vite ha ovviato anche ai costi, elevatissimi se si fosse usato sughero di alta qualità per produzioni così ingenti. “Un problema però solo successivo a quello della qualità” tiene a sottolineare Franco Cocchiara, wine global coordinator di Guala Closures. “Se è vero che in Argentina il vino, anche di medio livello, è stato sempre chiuso con tappo a vite per via degli alti costi di importazione del sughero, Austria e Svizzera usano da anni la chiusura a vite per il 50% della produzione. I principali obiettori del tappo a vite sono i produttori italiani e francesi, quelli cioè che hanno più facilmente accesso al sughero, prodotto principalmente nell’area mediterranea”. Oggi Guala Closures conta clienti da Marchesi Antinori alla statunitense Gallo, passando per la spagnola Torres e la cilena Concha y Toro, terzo produttore mondiale di vino. E il fatturato ringrazia. Se nel 2004 le vendite delle chiusure da vino a marchio Guala Closures erano inferiori a 400 mila euro, nel 2010 hanno superato i 49 milioni, su un giro d’affari totale di 370 milioni. Degli oltre 9 miliardi di tappi a vite prodotti ogni anno dal gruppo, un miliardo sono destinati al vino. E Guala Closures è l’unica a vantare nel comparto tre brevetti, tra cui il tamper evident, un tappo unico al mondo contro adulterazioni e contraffazioni.

A favore. Dall’Europa all’Australia è la chiusura perfetta. “Usiamo i tappi a vite Guala Closures da un paio d’anni nella nostra cantina di Santa Cristina” conferma Renzo Cotarella, a.d. della toscana Marchesi Antinori, “dove produciamo cinque etichette (tutti bianchi, a parte
una prova su un rosso di pronto consumo), per un totale di 500 mila bottiglie e di 30 milioni di ricavi sui 130 globali”. Per l’azienda si tratta di numeri bassi, ma l’interesse per queste chiusure è sempre più elevato, specie da mercati non domestici come il Centro Europa, l’Austria, la Germania, l’Olanda e l’Australia. “Quella a vite è la chiusura perfetta, migliore della plastica, anche se proprio per questo motivo il tappo a vite non è indicato per vini destinati all’invecchiamento, soprattutto rossi, per i quali la permeabilità tipica del tappo di sughero è fondamentale. E poi la resistenza alla chiusura a vite deriva dal diverso approccio dei mercati e dei consumatori, ma anche qui le cose stanno cambiando” conclude Cotarella.

Contro. Mai ricorrere a una nuova tecnica solo per risparmiare. “Non bisogna ricorrere a una nuova tecnica di chiusura solo perché costa meno, va di moda ed elimina problemi col cliente” spiega Alberto d’Attimis-Maniago, la cui famiglia produce vini dal 1585, in Friuli. “Con il tappo a vite si riduce l’evoluzione del vino: la parabola di maturazione è più lenta perché manca la microssigenazione. Al di là dei giudizi estetici, un tappo a vite scadente può dare sentore di “ridotto” al vino, difetto dovuto proprio alla perfetta chiusura”. E mancano studi proiettati nel tempo su eventuali cessioni delle materie plastiche al vino. “Certo, per un vino di poca struttura e da consumarsi nell’arco di 6 mesi, un tappo alternativo può anche andar bene. Ma già imbottigliare a vite il mio Pinot Grigio, che nel 70% dei casi viene bevuto tra i 13 e i 18 mesi, equivarrebbe a castrarlo. Case storiche come la nostra sono fondate su tradizione, rigore e concretezza. E non a caso del sughero di qualità si dice: sempre imitato, mai eguagliato”.

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