02-Planeta_manchette_175x100
Allegrini 2024

Panorama

Nel nome del vino: la lite sul Tocai. Un documento del ‘600 riapre la querelle tra Italia e Ungheria per l’utilizzo dell’etichetta. E presto il caso approderà alla Corte europea di Bruxelles ... “Produciamo vino dal 1520” dice al conte Filippo Formentini. Parla con la stessa naturalezza con cui indossa la Tracht (il vestito mitteleuropero che portava suo nonno) e passeggia nelle sue terre col falco Peter sul braccio. “Quindi ci battiamo per il nome del nostro Tocai friulano che gli ungheresi non vogliono farci usare” spiega mostrando un documento trovato nel 2001 negli archivi di famiglia. E’ il patto con cui la sua antenata Aurora portava in dote al conte ungherese Adam Batthyany “vitti di Toccai, 300”. Correva l’anno 1632, vent’anni prima che in Ungheria cominciasse la produzione di quel vino che si chiama come la città di Tokaj. Si tratta dello scritto più antico in cui si parla del vino che prende il nome dalla frase slovena “je tukaj” che vuole dire “è di casa”. Un foglietto di carta scritto a mano, diventato ormai una bandiera nella disfida del Tocai. Ha meno di 40 anni Formentini, e otto secoli di storia alle spalle. Tradizione e imprenditoria convivono sotto lo stemma di famiglia, tra cinghiali in campo rosso e bianco, che dal 1216 adornano le sale del castello di San Floriano del Collio, sopra Gorizia. Oggi il maniero ospita un albergo, un golf a nove buche, un ristorante e una cantina che produce 300 mila bottiglie l’anno. Attorno, le colline dei massacri della Grande guerra e il verde dei vigneti. Dove i filari di Tocai friulano sono allineati come soldati pronti alla battaglia.

La querelle è cominciata nel 1993, quando il Governo, guidato da Carlo Azeglio Ciampi nell’Italia squassata da Mani pulite, firmò un accordo in sede comunitaria che riconosceva all’Ungheria il diritto a usare in esclusiva il nome di Tokaj, per quel vino così importante da essere citato nell’inno nazionale. Agli italiani veniva concesso di usarlo solo sino al 31 marzo 2007. Se la decisione passò inosservata per il pubblico, per i produttori di Tocai fu invece un disastro. “Un mercato da 750 miliardi di lire fu messo a rischio” spiega Filippo Formentini “Qualcuno si è arreso e ha espantato i vitigni, altri hanno inventato nomi assurdi, altri, furbetti, sognano un risarcimento della Ue”. Un conflitto inspiegabile perché si tratta di due vini molto diversi, che per secoli avevano convissuto senza polemiche. Tanto più che il Tocai friulano è un vitigno autoctono della zona di Gorizia, come la Ribolla gialla e la Malvasia, dal quale si produce un bianco secco. Colore giallo paglierino con riflessi verdastri, retrogusto di mandorla, consigliato per antipasti, crostacei, l’ideale per la cucina mitteladriatica. Mentre Tokaj in Ungheria, è il nome di una località. Il celebre vino ungherese nasce dalla miscela di tre uvaggi, di solito è dolce e liquoroso ed è conosciuto sin dalla fine del ‘600 come “il vino dei re, il re dei vini”. “Il nostro era buono per il popolo e i signori: cancellare il suo nome sarebbe come togliere la pizza ai napoletani” spiega Formentini, ricordando che sino agli anni 60 il Tocai era roa da osteria. Solo quando produttori come Schioppetto e Felluga cominciarono a imbottigliare divenne un vino di qualità, apprezzato in Austria, Germania, Gran Bretagna e Usa. Ma, chissà perché, l’Ungheria nel 1993 ottenne dalla Comunità europea l’esclusiva del nome Tokaj. Il conte non esita a ricordare che “i francesi hanno investito molto sui vitigni in Ungheria” e ad accusarli di “pressioni sulla Ue”. Parla anche di un giallo: “Stranamente, il nome Tocai sparisce dall’elenco dei vini italiani per alcuni mesi del 1993, proprio mentre a Bruxelles si esaminava la richiesta ungherese”. Quando ricompare, aggiunge, è troppo tardi perché l’accordo è stato firmato. “Un errore” del governo, un autogol, secondo il professore Fausto Capelli, direttore del Collegio europeo di Parma e vittorioso legale dei produttori italiani nelle recenti vertenze davanti alla Corte di giustizia europea a tutela di prodotti, come il parmigiano e il prosciutto di Parma. “Nel ’93 ci fu molta leggerezza nella lettura degli atti” spiega l’avvocato “anche perché nel 1962 la Cassazione aveva dato ragione ai baroni Economico di Aquileia contro la società di stato ungherese che gli contestava il diritto di usare il nome Tokaj per il loro vino”. Che sia scritto con la “c” o con la “k”, è un vino che crea sempre discussioni.
Ma la scoperta del patto di Aurora ha risvegliato gli amici. Il clamore suscitato in Friuli dalla scoperta è giunto alle orecchie del ministro per le Attività produttive, Antonio Marzano, che è stato il primo a chiedere lumi a Formentini. Che poi è riuscito a convincere il ministro per l’Agricoltura, Gianni Alemanno, a intervenire sulla vicenda con il collega degli Esteri, Franco Frattini. “Stiamo recuperando faticosamente una vicenda cominciata negli anni 90” spiega Alemanno “e il ministero degli Esteri ha riaperto questo tema nella discussione dei patti di adesione dell’Ungheria alla Ue. Ora la commissione europea è stata impegnata a trovare una soluzione, che tuteli ungheresi e italiani”, Ma, paradossalmente, proprio il suo ministero è stato chiamato, per il 9 giugno, davanti al Tar del Lazio dalla Regione Friuli-Venezia Giulia e dai produttori di Tocai, assistiti da Capelli, per un decreto del 2002 che recepisce l’accordo del 1993. Il Tar servirà da trampolino per trasmettere gli atti alla Corte di giustizia europea. I giudici di Bruxelles, che valuteranno anche l’atto della baronessa Aurora, riusciranno a trovare prima dei politici una soluzione alla guerra del Tocai?

Copyright © 2000/2024


Contatti: info@winenews.it
Seguici anche su Twitter: @WineNewsIt
Seguici anche su Facebook: @winenewsit


Questo articolo è tratto dall'archivio di WineNews - Tutti i diritti riservati - Copyright © 2000/2024

Pubblicato su