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Panorama

Alziamo i calici con una Passerina: contro i barrique e le etichette troppo presuntuose i vitigni di paese, dai nomi talvolta bizzarri, si prendono la rivincita. E una guida racconta che cosa bere tra Bellone, Ciliegiolo, Coda di volpe ... Cabernet e Chardonnay, Chardonnay e Cabernet. Sono le due uve prezzemoline che si nascondono dietro le allungatissime carte dei ristoranti, negli scaffali sempre più affollati delle enoteche. Purtroppo uve tutte uguali danno vini tutti uguali. E qui finiscono le cattive notizie. Perché contro la monotonia del vino moderno oggi spunta un rimedio: i vitigni autoctoni. Sono le uve contadine, varietà locali che dopo un lungo oblio si ricominciano a piantare grazie all'impegno di viticoltori appassionati. I vini che se ne ricavano hanno radici antiche ma prospettive: sono inediti, mai bevuti al di là del paesello e mai vinificati così bene, grazie all'adozione delle stesse moderne tecnologie che hanno fatto grandi le bottiglie prodotte con uve internazionali. Ogni mese gli agronomi scoprono viti di varietà sconosciute e il bello è che questo non succede in foreste impenetrabili ma dietro l'angolo, sulla collina davanti casa o fra i palazzi cittadini. Nel centro storico di Brescia, sotto le mura del castello, c'è il vigneto urbano più grande d'Europa, con viti centenarie della rarissima varietà invernenga. Il risultato è il Pusterla bianco, minerale, amarognolo. «Una volta a Brescia avevano tutti una piccola vigna dove si producevano vinacci acetosi; ora che abbiamo perso le nostre radici agricole c'è il miracolo di questo vino perfetto e paradossale, perché ricavato a pochi metri dai negozi di scarpe e dalle gioiellerie» dice Camilla Baresani, critico del Sole 24 ore e bresciana doc. E questo vino è la sorpresa più eclatante della guida I vitigni autoctoni appena pubblicata dal Gambero Rosso. Il titolo fa impensierire, sembra trattarsi di un manuale di agraria e invece è un libretto agile che descrive 445 vini spesso ignoti anche agli intenditori. L'Italia appare come un Vigneto delle meraviglie fitto di piante dai nomi curiosi, poetici, buffi: Bellone, Casavecchia, Ciliegiolo, Coda di Volpe, Colorino, Erbaluce, Minnella, Oseletta, Rondinella ... In passato anche questi erano un problema, si è scritto che nessuno avrebbe mai ordinato al ristorante una Passerina (troppi doppi sensi) o un Pecorino (saprà mica di formaggio?). Oggi il vento è cambiato. Gli enofili più curiosi si sono stancati di Cabernet, Merlot, Pinot, e si interessano ad aziende come la marchigiana Cocci Grifoni che ha investito proprio su Pecorino e Passerina, ben sapendo che le battute spiritose passano mentre la qualità del vino resta.
Bere autoctono spesso significa sottrarre al cemento i più bei panorami italiani.
Il vigneto di Brescia è un'oasi naturalistica al centro di una città congestionata, mentre le vigne ischitane sono un antidoto alla completa lottizzazione dell'isola. La vigna Frassitelli, disposta su terrazze a picco sopra le case bianche di Forìo, non produce solo il Biancolella supremo ma è anche stata scelta come location del film di Leonardo Pieraccioni Il paradiso all'improvviso. E il gusto? Il Frassitelli di Casa D'Ambra smentisce il pregiudizio che gli antichi vitigni forniscano vinelli ruspanti, alla buona. È vero che molti vini indigeni sono più freschi, più leggeri, più bevibili della media, ma questi non sono più difetti da quando ha cominciato a emergere la tendenza «no barrique» (in uno slogan: meno legno, più frutto). Comunque, il mondo degli autoctoni soddisfa anche chi va a caccia di emozioni forti: nel bicchiere del Fumin, rosso valdostano, si percepiscono sentori di noce moscata, cannella, tabacco, pelliccia ... Ce n'è per tutti i gusti, nel Vigneto delle meraviglie.

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