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Panorama

No al vino liftato ... Il miglior sommelier del mondo accusa. Enopamphlet. Come per le donne rifatte, il vizio dell’accanimento chirurgico rovina molte bottiglie. Le conseguenze? Gusto omologato, sradicamento dal territorio, e strapotere dell’etichetta... Ormai è sempre più l’immagine a farla da padrona. La ricerca della perfezione a tutti i costi: apparire, apparire, apparire. Ma se tutti sono così impegnati ad apparire, rimarrà poi qualcuno interessato a osservare? In queste passerelle variopinte, le girandole di visi, corpi ed espressioni che inneggiano alla giovinezza hanno rubato la scena all’unicità, al caratteristico, all’autenticità d’espressione. Caratteristiche che cerco negli uomini così come nell’altro grande amico: il vino. In un mondo che corre a velocità disumana, il vino è divenuto moda, ma come è possibile? Proprio il vino, che per essere capito e apprezzato necessita di tempo e dedizione...
Il vino è divenuto business, è stato trasformato da alcuni addetti ai lavori in puro oggetto di marketing. Bisogna produrne tanto e soprattutto che piaccia al più vasto numero di persone. E allora, ritoccatina al cépage, un po’ più colore, maggiore concentrazione, fermentazione abbreviata, un giretto nel legno giusto, ed ecco che sfilano tante belle bottiglie, dalle forme perfette (grazie alle eccellenti tecnologie utilizzate ormai in cantina) ma poco distinguibili.
Vini molto ricchi in alcol, troppo pastosi, troppo maturi e con le solite note di vaniglia, liquirizia, caffè, pane tostato. In pratica, secondo il mio modesto palato, stancanti.
La perfezione di un corpo rifatto è indiscutibile, ma sarà altrettanto emozionante da degustare? In America del Sud, California, Australia, ma anche in Spagna e nel Centro-Sud d’Italia, per piacere a sempre più palati neofiti molti produttori si orientano verso una produzione di vini perfetti: facili da bere, esageratamente morbidi, con tannini meno marcati (grazie a fermentazioni molto ridotte, il mosto resta per un periodo più corto a contatto con le bucce). Creando così un’omologazione di gusto che ha danneggiato le diversità territoriali esistenti nei paesi e l’unicità stessa dei vini autoctoni.
La crescita smisurata d’interesse mondiale, soprattutto nei nuovi paesi asiatici e nordamericani, ha accelerato la corsa verso la produzione di questi vini “perfetti”. La perfezione non può certo essere lo strumento di misura per il vino. Degustare un vino è degustare l’uomo o la donna che lo hanno prodotto. Ma ancor più è aprire la mente e il cuore per ascoltare quello che la terra, le vigne, il clima ci vogliono raccontare. Racconto che dovrebbe essere ogni volta unico.
Grazie a quei produttori che, fedeli alla tradizione, sposano con misurata cautela l’evoluzione tecnologica nel rispetto dei tempi naturali (senza attuare così dannose rivoluzioni), e grazie a madre natura che mai ugual si ripete, la degustazione si trasforma allora in un viaggio intellettuale, culturale, sensuale. Al contrario, l’accanimento verso gli standard (pura strategia di mercato) porta in molti casi ad atteggiamenti contro natura.
Il colore del vino, per esempio, deve essere intenso. Ha preso ormai piede la convinzione cha tanto più il colore è ricco tanto più il vino è buono. Ma ci sono nobili vitigni che hanno una propria caratteristica colorante, come il Sangiovese, il Nebbiolo, il Pinot nero, che non si presenteranno mai come il Cabernet Sauvignon, il Merlot o la Syrah. È come voler trasformate, con un paio di tacchi, una persona alta 160 centimetri in una modella da sfilata.
Anche questa ricercatezza smisurata della potenza: il vino in bocca oggi deve per forza risultare potente. Nel vino vanno ricercati l’equilibrio, l’eleganza, la finezza, la freschezza. Non certo quella potenza che ti inebria per qualche istante e che poi scivola via così velocemente nell’oblio. I vini “palestrati” hanno una cortissima vita, dai sei mesi ai due anni come massimo. Quando invece si degusta un vino di 30 anni, magari nato con piccoli difetti di giovinezza (come un’acidità elevata o un’eccessiva durezza dei tannini) che il tempo ha però trasformato in qualità, donando infine un vino armonioso, di qualità eccezionale, allora viene da chiedersi: non vale la pena aspettare?
L’importanza non è il colore in sé, non è la potenza ricercata, e neppure quel passaggio forzato in legno, bensì il fatto che il vino rispecchi effettivamente l’identità del vitigno e dia voce alla specificità del terreno e del microclima che lo caratterizzano. Dal Nebbiolo e dal Sangiovese per esempio, quando piantati nel terroir per loro perfetto, si producono vini eccezionali in purezza (100 per cento dell’uvaggio). Se pensiamo che è sufficiente l’aggiunta di piccole percentuali di altri vitigni per supplire alla mancanza delle caratteristiche del perfetto terroir, ci si sbaglia di grosso. Una Ferrari ha bisogno di un grande pilota per esprimere al meglio le proprie potenzialità, così questi due grandi vitigni del loro terroir.
Mi chiedo per esempio se in Australia si è tenuto conto delle caratteristiche del territorio (che conosceva fino ad allora il mais) passando da una produzione di 85 mila ettari nel ‘96 a una di 150 mila nel 2000. Come si fa a scegliere in quattro anni i vitigni più appropriati, considerando la vastità geografica e climatica dell’Australia. Ecco allora che l’economia di mercato ha la meglio sullo studio e la seria ricerca verso la perfetta combinazione vitigno- ambiente-uomo. Stessa cosa per la California, dove dall’85 al 2003 la superficie delle piantagioni di Chardonnay, Pinot noir e Cabernet Sauvignon è più che triplicata. E così via, gli esempi sono innumerevoli.
Studiare chirurgicamente l’identità di un vino è una grande nefandezza. Che senso avrebbe allora deliziarsi con le degustazioni? Degustare significa rintracciare il genio tramite la riflessione. Sì, il vino può insegnarci a riflettere e a conoscere meglio gli uomini. In definitiva, la degustazione non è altro che la ricerca minuziosa di un segreto, una lezione di vita, un’occasione per arricchire il nostro sapere. Ma perché tutto questo avvenga il vino deve essere autentico.
E allora bisogna avere il coraggio di dire basta, basta con il lifting. Basta con il non rispetto del terroir piantando tutto e ovunque, con le maturazioni eccessive, con l’evoluzione stressata dell’enologia, con l’esagerazione nell’elaborazione in cantina, con l’uso eccessivo del legno nuovo, spesso americano, con l’omologazione internazionale del gusto, con le etichette ingannevoli (vedi la miriade di vini ocm che terminano in “aia”), con lo smisurato numero di nuovi Igt che escono ogni anno. Basta con la miriade di concorsi enologici dove vince il “miglior vino”. Non esiste il miglior vino.
Le classifiche: che bella invenzione a scopo puramente commerciale. Non abbiamo a che fare con un campionato di calcio. La partita con il vino la perde sicuramente l’uomo, il degustatore, il critico, il conoscitore. Il vino è sempre pronto a sorprendere, a spiazzare. A volte basta degustare in un contesto diverso, in un altro bicchiere, in compagnia di una persona... e lo stesso vino ci appare differente, ma è sempre lì pronto a donare emozione. L’uomo dovrebbe solo imparare a godersi l’istante, astenendosi dal giudicare a tutti i costi, anche perché è la natura la vera anima del vino. I maestri del vino, i grandi produttori (vedi Jean-Luis Chave per l’Hermitage, Egon Mùller per il Riesling nella Saar-Rewer, Elio Altare per il Nebbiolo a Barolo e tanti altri), durante gli insostituibili viaggi nei vigneti da sempre mi ripetono una frase emblematica: “Il vino si fa nella vigna, non in cantina”.
Ogni vendemmia è una storia nuova che si scrive, è una nuova avventura per il viticoltore e un regalo da scartare per l’amatore: un istante felice, che s’imprime nella nostra memoria e nei nostri cuori.., ma solo quando il vino merita!

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