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Panorama

Ho passato mezzo secolo a far festeggiare gli italiani col Ferrari, ora vorrei far sorridere i bambini africani ... “Per il passato dico grazie, perché mi sono divertito. E per il futuro dico sì”. Gino Lunelli, 72 anni, per 53 alla guida delle Cantine Ferrari, l’ammiraglia delle bollicine italiane, non si smentisce neanche al momento di lasciare il bastone del comando a Matteo e agli altri Lunelli di terza generazione per diventare presidente emerito (“Mi piace, fa tanto cardinale”) della casa che non ha avuto paura di sfidare lo champagne. Non è da tutti andare in pensione con uno slogan così, che guarda avanti, mica dietro le spalle. Ma, del resto, uno come Lunelli, classe 1939 ma spirito di un ragazzo, non è tipo da andare in pensione. “D’ora in poi” spiega “mi occuperò di solidarietà: Mozambico, Malawi, Brasile. Ma sul campo, senza fare convegni o autocelebrazioni, come capita a tante fondazioni”. L’importante, poi, è divertirsi, facendo fruttare i quattrini per l’interesse degli altri. Perché precisa subito Gino l’emerito, “come diceva Escrivà de Balaguer, il fondatore dell’Opus Dei, i quattrini non servono: quando sono pochi, ben s’intende”. Senz’altro non erano molti i soldi in cassa quando, nel 1958, Gino Lunelli è entrato nelle cantine che nel primo dopoguerra erano state fondate da Giulio Ferrari, nobile tridennno con il bernoccolo della viticoltura. La ditta, in realtà, era stata rilevata sei anni prima da Bruno, il padre di Gino, per “un’enormità”: 30 milioni di lire per un’azienda che non vendeva più di 10 mila bottiglie a un prezzo (780 lire più 200 di tasse) proibitivo per le tasche degli italiani dell’epoca. Ma il conte Giulio, un talentaccio che aveva studiato a Montpellier, l’università dell’enologia d’oltralpe, era tornato in patria con una strana idea: fare lo champagne sulle colline di Trento, dove l’uva Chardonnay si chiamava Borgogna giallo e dove, prima di lui, non esisteva la monocoltura della vite. “I contadini alternavano un tralcio di vite a un campo di patate, un po’ di cereali, un po’ di frutta. Ci voleva il conte per creare un vigneto moderno”. Un tecnico insomma, un po’ come Mauro, il fratello maggiore di Gino, che ha studiato enologia a San Michele all’Adige. Al contrario di lui, spiritaccio commerciale come il papà, che lo ha spedito in ditta subito dopo la maturità (“Per l’università puoi studiare la domenica” gli disse “anzi, ti lascio libero pure il sabato”). “Peccato” sospira lui “che a quei tempi non usava fare esperienza all’estero, magari in un’università”. Eppure la lezione di Gino merita un corso in qualsiasi ateneo dove si studi la scienza del marketing. Le 30-40 mila bottiglie che uscivano dalle cantine Ferrari a fine anni Cinquanta diventano 1 milione nell’81, poi 3 milioni nel ‘91, fino alla vetta dei 5 milioni nel 2007, primato che, per colpa della crisi, resiste ancora. Tutto per merito, sostiene lui, di un segreto. Anzi due. L’atto di fede nel territorio, anzitutto. Gino, che si è laureato in economia dopo i trent’anni, strappando tempo prezioso alle mille visite ai clienti di rango (“Che emozione” ricorda “vendere i primi spumanti agli alberghi dei fratelli Gallia di Milano”), sosteneva già a metà anni Sessanta, quando di doc non si parlava nemmeno, che la fedeltà al territorio paga: tutto, dal vitigno fino all’etichetta, deve arrivare dal “terroir”, a garanzia dei consumatori che ci stanno a pagare di più se si fidano. Ma, una volta garantita la qualità, bisogna saperla vendere. E qui sta il capolavoro di Gino: inutile spendere soldi in pubblicità quando, a farti da testimonial, per i tuoi possibili clienti, possono esserci i giornalisti o, comunque, gli intellettuali. Tempi beati, quando una buona bottiglia apriva porte che oggi si spalancano solo di fronte ad assegni milionari. A Monza, grazie a Enzo Ferrari (“Prima di quell’Ecclestone...”) i trionfi si celebrano dal podio con un magnum di Ferrari. Con la complicità di un massaggiatore, la bottiglia Ferrari spunta sul prato del Bernabeu la sera del trionfo italiano al Mundial ‘82. Quell’anno, per celebrare il libro della ditta, si riunisce a casa del Drake, in quel di Modena, una compagnia d’eccezione: Enzo Biagi, Giorgio Bocca, Ottavio Missoni (“Xè lo porto io il maglion per l’Enzo che lo vesto come un guatemalteco”) e Ugo Tognazzi. “Mo ve’” commenta il creatore della Rossa “lo conosco proprio volentieri quel puttaniere...”. Difficile quando si ascoltano le storie di Gino, non farsi prendere dalla nostalgia per un’Italia che non c’è più: i racconti di Indro Montanelli, le serate a Cortina con quell’eterno fanciullo di Vittorio Gassman, la bottiglia stappata per Eugenio Scalfari il giorno della nascita della Repubblica. “Altri tempi: ora non mi diverto più”. Mica vero. Basta vedere come gli brillano gli occhi quando racconta le ultime gesta della premiata ditta: la grappa Segnana, invecchiata “nelle botti che vado a comprare da González Byass”. O l’acqua Sorgiva, ultimo tassello di un polo del bere dove ogni marchio, come vuole il Lunelli pensiero, “deve fare storia a sé e identificarsi con il territorio d’origine”. A rafforzare il brand, poi, ci penserà lui, con una lunellata. Tipo quelle che l’hanno spinto a Pechino, ancora prima della strage di piazza Tienanmen, a vendere lo spumante Ferrari nei Negozi dell’amicizia. O a Mosca, all’epoca della perestrojka, per aprire un ristorante alla moda, l’Hostaria Ferrari, nell’albergo aperto da Mike Hammer. “Me ne sono andato dopo sei mesi, perché non ce la facevo a reggere quella brurocrazia. Benedetti quei burocrati: sono loro che hanno soffocato il comunismo”. Ma, nel frattempo, l’Hostaria si era guadagnata un bel titolo sulla “Frankfurter Allgemeine Zeitung” e sul “Financial Times”. “Ma oggi” sospira “il mondo appartiene ad altri. Mica mi posso mettere a studiare internet, io”. Oggi tocca ai “lunellini”, cioè i nipoti di Gino: Matteo, 37 anni, il nuovo presidente che lavora con lui dal 2003, dopo cinque anni di gavetta all’estero; Marcello (l’enologo), Camilla (cui tocca la comunicazione, eredità impegnativa dopo uno zio del genere) e, da due anni, Alessandro (area tecnica). “Devono confermare in azienda” commenta orgoglioso “quel che di buono hanno fatto all’università. Tutti e quattro sono usciti con una laurea con 110 e lode”. “Armiamoci e partite, perché io non parto più” è il messaggio dello zio, che prima di andarsene ha benedetto una governance particolare, disegnata apposta per un’impresa di famiglie ricche e numerose: requisiti severi, in materia di curriculum ed esperienza, per i futuri “lunellini” che volessero entrare in azienda. E che vieta di arruolare mogli e mariti degli eredi nelle Cantine, tanto per ridurre il rischio di dissapori. Ha pensato proprio a tutto, Gino, prima di partire per nuove avventure. Senza scopo di lucro perché confessa, “l’ultima cosa che voglio è portarmi i soldi dentro il cimitero”.

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