Non ha bisogno di grandi presentazioni il mercato Usa, senza dubbio il punto di riferimento per l’export enoico italiano, sempre sotto la lente di analisi ed approfondimenti, anche da parte di WineNews. Gli ultimi dati, in questo senso, parlano di 544,7 milioni di euro di esportazioni complessive nei primi 4 mesi del 2018, in crescita del 4,4% in volume e dell’1% in valore, secondo l’Osservatorio Vinitaly-Nomisma Wine Monitor, con il Belpaese che rimane il principale Paese fornitore degli States anche in questa prima parte dell’anno. Ma questo non vuol certo dire che ci si trovi di fronte ad un mercato semplice, tutt’altro, come racconta dal Congresso n. 73, nell’approfondimento dedicato al mercato Usa, Leonardo LoCascio, fondatore di Winebow, tra i principali importatori in America.
“Il mercato americano - esordisce LoCascio - è il più importante del mondo ed ha fondamentali in buona salute: in Usa abbiamo un tasso di natalità del +2% annuo, pari ad una nuova Svizzera che, ogni anno, si affaccia sul mercato dei consumi. Aumenta, anche se di poco, anche il consumo medio. Il giro d’affari complessivo vale 63 miliardi di dollari, di cui un terzo nel segmento ho.re.ca., ma si tratta di un mercato estremamente parcellizzato, con più di 25.000 etichette, di cui 500 valgono il 50% del mercato. È un mercato grande e frazionato, ma anche particolare, con caratteristiche strutturali uniche: è fortemente regolamentato, in modo a dir poco anacronistico, e da qualche anno sta vivendo una frenetica attività di consolidamento della catena di distribuzione. Non è un mercato unico e compatto, e per ottenere successo è necessario capirlo ed articolare una strategia coerente con le sue caratteristiche”.
Ma è anche bene ricordare, come sottolinea LoCascio, che gli Usa hanno “sempre avuto un rapporto conflittuale con l’alcol, tanto da imporre il proibizionismo in Costituzione: dopo 13 anni, ci si è resi conto che era meglio regolamentare il commercio di vino e alcol che avere a che fare con i gangster, modificando di nuovo la Costituzione, per la prima volta in un lasso di tempo tanto breve. Quello che ci troviamo di fronte oggi, è un mercato regolamentato, ossia che non incentiva il consumo, ma lo tollera. Uno dei modi per ottenere questo risultato, è una catena distributiva lunga, con tre passaggi obbligati, che danno il nome al famoso “Three-Tier System” (cantina - importatore - distributore - ristoratore/enoteca), da cui non si prescinde, perché basato su leggi statali (poi ognuno dei 50 Stati ha una sua normativa, ndr) e che tra un passaggio e l’altro, se si considerano anche i costi di trasporto, arriva a quadruplicare il prezzo di una bottiglia dall’Italia allo scaffale. Intanto, in maniera del tutto anacronistica, la vendita su internet è ancora una giungla, ci sono leggi contrastanti tra Stato e Stato, e dove è permessa lo è solo alle enoteche”.
Ciò che più impressiona, riprende Leonardo LoCascio, “è che Nel Paese del liberalismo, in 18 Stati c’è ancora il monopolio per i superalcolici, ed in 5 c’è anche per il vino: Mississipi, New Hampshire, Pennsylvania, Utah, Wyoming. In 26 Stati, invece, il distributore è in franchising, quindi non si può cambiare senza ottenere prima l’assenso: quando c’è un cambio di importatore, quindi non c’è un veloce cambio di distributore come nei mercati più liberi. Nel New Jersey è leggermente diverso, pur non potendo togliere il diritto ad un distributore di vendere i tuoi vini, puoi aggiungere altri distributori. E ancora, molti Stati importanti, come New York, New Jersey, Massachussets, non permettono licenze multiple o vendite nei supermercati. Ci sono anche limiti agli sconti, che devono essere registrati ben 40 giorni prima, così come ai termini di pagamento, a 30 giorni, per evitare che diventino uno stimolo ai consumi: se il cliente non paga il distributore mette il ristorante in una sorta di black list, e non può acquistare vino da altri. In definitiva, la distribuzione in Usa è un lavoro lungo e complicato, spesso fatto un cliente alla volta, con differenze enormi rispetto a mercati come Inghilterra, Canada e Scandinavia, dove un solo buyer può comprare decine o centinaia di container di vino”.
Eppure, in un mercato tanto grande, il 75% del vino consumato in Usa proviene da produttori americani, (ma il 10% è frutto di vino sfuso importato e imbottigliato in Usa), tanto che gli Usa sono il primo produttore extraeuropeo ed il quarto in termini assoluti. A parte la California, da dove arriva il 90% della produzione interna, il vino si produce praticamente ovunque, ma in maniera significativa negli Stati di New York, Washington e Oregon, e che la produzione interna sia in crescita esponenziale lo dimostra, ancora, la quota delle importazioni, con l’imbottigliato passato dal 26,2% del 2005 al 22% del 2017. Il ruolo dei distributori, in questo senso, è mutato tantissimo negli ultimi decenni, come ricorda ancora il presidente di Winebow: “nel 1990 c’erano 7.000 distributori, nel 2010 erano appena 700, di fronte ad un aumento importante del numero di punti vendita (enoteche e ristoranti), passati da 400.000 a 550.000, ed i primi 5 gruppi, nati da importanti fusioni di giganti della distribuzione del wine & spirits, muovono il 75% del vino venduto in Usa: Southern Glazers (17,5 miliardi di dollari di fatturato), Republic National Distributing Company and Breakthru Beverage (13 miliardi di dollari), Young’s Market (3 miliardi di dollari), Empire (1,9 miliardi) e Johnson Brothers (1,9 miliardi di dollari)”. In tutto ciò, cresce anche il numero dei Paesi e delle etichette che vanno ad ingolfare il sistema distributivo negli Stati Uniti. “Non c’erano, sul mercato, fino a 20 anni fa, Australia, Nuova Zelanda, Cile, Argentina, ma la situazione è critica, anche perché si tratta di gruppi enormi con poche conoscenze di vino”.
A rendere ancora più complessa la realtà del commercio enoico Usa, le differenze geografiche, nelle leggi che regolamentano la commercializzazione: “negli Stati dell’Est - continua LoCascio - non è permessa la vendita nelle grandi catene di distribuzione, mentre negli Stati del Sud e dell’Ovest (California, Arizona, Texas, Florida) la maggior parte delle vendite è proprio nelle catene dei supermercati. Ma non è necessariamente una buona notizia, perché le catene della Gdo hanno spesso selezioni limitate. Inoltre, il buyer viene cambiato in continuazione per evitare casi di corruzione. In generale, però, c’è poca cultura del vino, si dà enfasi soprattutto ai varietali più conosciuti, e se il consumatore presenta i suoi problemi, a partire dalla mancanza di fedeltà, al brand come al Paese di origine del vino, il distributore è comunque l’ostacolo maggiore, specie per i vini più cari, dove il mercato parallelo spesso entra in conflitto con i distributori, che tendono a perdere interesse per il prodotto”.
Ma quanto pesano gli Usa sul consumo globale di vino? Ben il 14,1%, su un totale di circa 24,7 miliardi di casse, per un consumo medio ancora molto basso: 14,2 litri annui pro capite, contro i 52,8 della Francia, primatista assoluta, o i 25,1 della Gran Bretagna, e continua a crescere, in maniera importante anche il prezzo medio. Ecco perché, nonostante le difficoltà quello degli Usa resta un mercato che continua ad offrire enormi opportunità. “Nel bilancio complessivo - conclude il fondatore di Winebow, Leonardo LoCascio - troviamo problematiche ed opportunità. Essendo il mercato più grande al mondo, sono presenti vini da ogni Paese produttore, per cui è super competitivo. Il consumatore, da par suo, acquista scegliendo innanzitutto una fascia di prezzo e spaziando all’interno di questa fascia, e non per fedeltà a un brand o a un Paese produttore. Come detto, la riduzione del numero di distributori è fortemente problematica, in un mercato saturo e stanco di nomi di fantasia e predilige i vini identificati dai varietali, ci vogliono denominazioni comprensibili e non astruse, un aspetto spesso in contrasto con i produttori italiani e con il sistema delle Igp e delle Dop. A proposito di produttori italiani - sottolinea LoCascio - devono rivedere il loro rapporto con i distributori, spesso obsoleto e datato nelle forme, hanno il diritto, ma anche il dovere, di capire a fondo il mercato, così da ottimizzare il potenziale di vendita ed allineare le proprie strategie e quelle del proprio importatore, che è un partner e non un cliente. Per questo, ci vogliono investimenti in personale che abbia capacità analitiche e strategiche coi dati del mercato per formulare obiettivi di vendita che siano realistici e concreti, ma anche il sostegno dell’Ice”.
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