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RICERCA - I MARCHI SONO DECISIVI PER RESTARE COMPETITIVI SUI MERCATI MA OCCORRE STRUTTURARSI E PUNTARE ALL’AGGREGAZIONE PER AVERE ADEGUATI LIVELLI DI SPESA PUBBLICITARIA, FONDAMENTALI PER AFFERMARE UN BRAND

I marchi saranno sempre più decisivi per restare competitivi nei mercati agroalimentari e serve strutturarsi per avere budget adeguati ad affermare un brand. Il raggiungimento di livelli adeguati di spesa in investimenti pubblicitari e comunicazione può essere infatti realizzata dall’aggregazione dei produttori come nei casi di Melinda, Conserve Italia o Cavit, o dalle multinazionali.
Sono le conclusioni a cui giunge un’indagine di Agri 2000, società di ricerca e servizi per il settore agroalimentare, dedicata ai cambiamenti intervenuti nei marchi italiani. Per cogliere i nuovi trend del settore, supportare le strategie competitive e aiutare l'agricoltura italiana a crescere sempre più, il presidente di Confagricoltura Federico Vecchioni insieme al presidente di Agri 2000 Camillo Gardini hanno stretto un accordo di partnership in vista del Forum di Confagricoltura “Futuro Fertile”, in corso a Taormina.
Dalla ricerca emerge che dove è avvenuta la concentrazione dei marchi è aumentato l’investimento pubblicitario e la conseguente capacità di competere delle aziende. In particolare sono stati presi in esame dieci settori: avicolo, lavorazioni carni, salumi, lattiero-caseario, vino, riso, pasta, ortofrutta fresca, olio d’oliva, olio di semi. Per ciascun comparto sono stati analizzati i fatturati 2007 e 2008, la quota di mercato delle prime dieci aziende, lo spending pubblicitario del settore, identificando i primi tre investitori.
L’indagine evidenzia importanti segnali sui cambiamenti in corso nel settore. Dopo anni di acquisizione da parte delle multinazionali, è infatti iniziato un percorso inverso, perché le grandi corporation hanno scelto di detenere marchi (europei o globali) che sviluppassero almeno un fatturato di un miliardo di euro. Questo sta favorendo un ritorno dei marchi in mano ai gruppi italiani. Sintomatici sotto questo aspetto sono i cambiamenti avvenuti nel mercato degli oli di semi di oliva, diventati di proprietà spagnola e italiana. Il settore dei salumi ha avuto un percorso analogo ripassando dalle multinazionali ai gruppi italiani. I settori che hanno iniziato più tardi questo percorso di avvicinamento da parte delle multinazionali sono invece l’avicolo e quello della lavorazione carni, che sono di proprietà essenzialmente italiana. Anche l’ortofrutta è italiana al 98%, come il vino, che ha una amplissima frammentazione perché le prime aziende raggiungono solo il 16,5% del mercato.
Secondo la ricerca di Agri 2000, il fenomeno emergente da monitorare è quello delle “private label” che hanno raggiunto il 14,7% del settore food e possono contare sui grandi investimenti pubblicitari delle catene della Gdo. Nel nostro Paese sono presenti ancora molti brand di proprietà italiana con un buon livello di notorietà sul mercato interno e potenzialmente “esportabili” sui mercati internazionali.
Alcuni di questi brand rimasti in Italia, sono Boschi (marchio Pomì), acquistato nel 2007 dal Consorzio Casalasco e Berni (marchi Condiriso e Condipasta) acquistato sempre nel 2007 da Copador e Copra. Altre opportunità derivano dall’acquisizione da parte di aziende italiane di brand stranieri in settori di nicchia altamente profittevoli, come il vino. Antinori, ad esempio, ha acquistato il 15% della californiana Stag’s leap wine cellar. Il Gruppo Italiano Vini ha invece acquisito dalla statunitense Brown-Forman il marchio Bolla. Rischi per il settore alimentare italiano potrebbero arrivare con l'aprirsi di una nuova fase in cui i brand alimentari medio/piccoli ancora in mano italiana, fossero acquisiti da grandi aziende di paesi emergenti e da fondi di investimento interessati ad entrare in un mercato profittevole come il nostro. Un esempio è quello del gruppo brasiliano Bertin che di recente ha acquistato il salumificio Rigamonti. Altro esempio è Inalca del Gruppo Cremonini che ha ceduto il 50% del capitale sociale alla azienda brasiliana Jbs.

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