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DURA E INCERTA, LA VITA DEL PESCATORE. MA CI SONO “GIOVANI E AMANTI DELL’AZZARDO” CHE COME MESTIERE SCELGONO LA VIA DEL MARE. A SLOW FISH DI GENOVA LE TESTIMONIANZE DI CHI HA COMPIUTO UNA SCELTA “CONTROCORRENTE”. FOCUS - IL RISCHIO “OCEAN GRABBING”

La vita del pescatore è dura: la fatica del mare, l’incertezza del “raccolto”, i consumi del pesce fresco che calano, così come la redditività del pescato, i costi che crescono, il fermo pesca di alcune specie per evitare l’esaurimento degli stock ittici, e così via. Eppure c’è una generazione di pescatori “giovani e amanti dell’azzardo”, che continuano a credere in un mestiere antico e di grande tradizione come quello del pescatore, soprattutto se si tratta di piccola pesca quella che utilizza metodi artigianali, fatta di rispetto per il mare prima che di avidità, di conoscenza profonda più che di uniformità superficiale. E che a Slow Fish di Genova ha portato tante testimonianze. Come quella di Marco Bazzardi, pescatore di Noli (Savona).
“Sono nipote d’arte ma per tanti anni mi sono rifiutato di uscire a pesca. Poi mi hanno convinto perché facevo il bagnino - racconta - e d’inverno non avevo reddito. La prima settimana è stata traumatica: avevo il rifiuto di toccare tutti quei pesci e poi che noia togliere i nodi alle reti! Poi pian piano è nata la passione e ho capito la cultura che fino ad allora avevo negato”. Marco è il presidente della cooperativa pescatori di Noli e, anche grazie al suo temperamento trascinante, si sono avvicinati altri 2 ragazzi: “se hai coraggio da vendere il tuo futuro è nella pesca: cosa c’è del resto di più rischioso che uscire in barca senza sapere quale sarà il risultato e quanto guadagnerai quella notte?”.
Il pesce è quello cosiddetto povero e le tecniche sono sostenibili per forza: bughe, zerri e cicciarelli (Presidio Slow Food) pescati con reti da posta o addirittura all’amo. “A Noli la strada del mare si impara da bambini: i figli dei nostri pescatori hanno già visto tutte le fasi a 9 anni, finiscono di studiare e si ritrovano con un mestiere in mano”.
Chiacchiera da esperto e piglio da imprenditore sono i segni particolari di Davide Petrini, presidente della cooperativa Il Pesce Pazzo di Varazze (Savona). E come si poteva mai chiamare l’attività di uno che 8 anni fa insieme alla moglie ha abbandonato il negozio di ottica di famiglia per seguire una strada data in perdita? La passione era nata già in giovane età: “a 16 anni mentre studiavo compravo la mia prima barca e avevo già la licenza di pescatore professionista. E poi ho girato il mondo con la pesca sportiva”.
La cooperativa oggi conta 20 soci la metà dei quali donne, età tra i 18 e i 26 anni e un incremento annuo che supera il 20%: “la strada è diversificarsi, non pesare così tanto sulle risorse del mare ma valorizzarle tutte, una ad una. E così all’attività di cattura abbiamo affiancato la trasformazione e il punto ristoro, la vendita e l’ittiturismo: solo così riusciamo a pagare tutti gli stipendi”. Un mestiere quello del pescatore che ha bisogno prima di tutto che vengano rimossi gli ostacoli per essere una fonte di reddito e dare futuro ai giovani e al mare.
Info: www.slowfish.it

Focus - Ocean grabbing: la regola non può essere il profitto. Da Slow Fish a Genova l’appello per la difesa delle comunità di pescatori artigianali
Un “devastante tsunami” che priva le comunità di pescatori di piccola scala dei loro mezzi di sussistenza. È l’ocean grabbing, l’accaparramento degli oceani e la loro privatizzazione, uno dei temi che più hanno suscitato interesse tra il pubblico internazionale di questo Slow Fish. Per approfondire l’argomento in un Laboratorio dell’acqua gremito di gente hanno discusso accademici, attivisti e pescatori artigianali. Tante visioni diverse con un punto di vista comune molto forte: l’eccesso di pesca non è determinato dalla mancanza di diritti di proprietà sui mari e sugli oceani, ma dalla cattiva gestione. Il parallelo con un altro fenomeno di accaparramento, il land grabbing su cui si hanno maggiori informazioni, è abbastanza immediato. E Stefano Masini, direttore del Settore ambiente e territorio di Coldiretti, parte proprio da questo assunto: “alla base della privatizzazione del suolo e gli oceani c’è un grave problema di regole, che determina il continuo calpestamento di diritti e l’assoggettamento all’unica legge che conta: il profitto a breve termine”.
Concretamente, questa tesi è comprovata dalle parole di Miguel Cheuqueman Vargas, pescatore cileno della comunità mapuche, che nel sud del Paese conta circa 2 milioni di abitanti. La sua è una storia di diritti espropriati in nome di un modello economico neoliberista e i numeri che mostra al pubblico non possono che dargli ragione: “il Governo cileno ha varato nel 2002 un piano secondo cui il 93% delle risorse ittiche è attribuito alla pesca industriale per la produzione di mangimi e il 7% alla pesca tradizionale per il consumo umano”. Alla comunità indigena mapuche non spetta alcunché, e le sue rivendicazioni e azioni di protesta restano spesso inascoltate. Da parte sua Miguel intravede un’unica soluzione: “la nascita di reti e alleanze tra le comunità indigene, i pescatori di piccola scala, i movimenti studenteschi e la società civile”.
Seth Macinko dell’Università di Rhode Island illustra come la privatizzazione degli oceani venga spesso presentata dai media come l’unica soluzione possibile al sovrasfruttamento delle risorse alieutiche. “Molti titoli di giornale vogliono farci credere che la privatizzazione dei mari sia una soluzione ambientale alla pesca eccessiva. Spesso usano parole edulcorate per parlare della questione. Ma questi titoli tacciono gli effetti della privatizzazione sulle comunità rurali e costiere. Non dicono dei piccoli pescatori che perdono il fondamentale diritto al sostentamento economico e alimentare. Sono bugie che ci vengono raccontate per promuovere gli interessi della pesca industriale”.
Dal Sudafrica, Carsten Pedersen della Ong Masifundise mostra come l’introduzione delle Itq (individual transferrable quotas) abbia già tagliato fuori dai giochi il 90% dei 30.000 pescatori artigianali. “Hanno avuto sui pescatori e sulle loro famiglie l’effetto di un devastante tsunami, escludendoli da subito dal processo di privatizzazione. Ma a queste tempeste dobbiamo prepararci tutti, unendoci alle proteste dei pescatori, perché ci riguardano molto più di quanto saremmo portati a pensare”.
Gli fa eco Brett Tolley, giovane statunitense che proviene da una famiglia di pescatori del Nord della costa atlantica e fa parte dell’organizzazione Nama. “Ci uniamo ai pescatori per correggere un sistema di rotture che comprende le politiche, i mercati, la scienza e la fiducia. Per farlo, crediamo sia utile trarre ispirazione dai movimenti a sostegno della piccola agricoltura familiare, riprendendone gli slogan e il linguaggio”.
Sugli Itq sono molto critici anche Marta Cavallé, spagnola della Fundación Lonxanet e Harald Zacarias Hansen, che parlano di un “processo di privatizzazione silenzioso, che non smetterà di monopolizzare le risorse e generare disuguaglianze sociali”.
Gli oceani hanno molti problemi, è vero, ma da ieri abbiamo molte risposte in più per dire che la soluzione non risiede nella loro privatizzazione, ma piuttosto in una gestione partecipata, che tenga conto di tutti gli attori e che dia voce anche a chi è generalmente inascoltato. Perché “il mare è di tutti”: anche dei piccoli pescatori, anche delle comunità indigene e anche nostro. Non possiamo non interessarcene.

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