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Un docu-film in memoria di “Renato Ratti. L’innovatore del Barolo”, uomo capace di capire le cose prima degli altri, dicono Angelo Gaja e Gigi Rosso, capace coniugare il “magismo” contadino con la modernità” per l’antropologo Piercarlo Grimaldi

Italia
Il Piemonte del vino ricorda la figura di Renato Ratti, anche con un docufilm

Fu uno dei primi a “frazionare” le colline del Barolo, ad individuare i “cru” e a capire l’importanza di produrre un vino con le uve provenienti da una sola vigna. Renato Ratti fu un precursore nel Piemonte degli Anni Cinquanta: enologo, produttore e uomo di profonda cultura, rivoluzionò la viticoltura di quegli anni. Lo hanno ricordato in tanti al Castello di Mango, Paese in cui è cresciuto tra i filari profumati di moscato. “Qui, in questa sala, nel 1946 abbiamo visto il primo film di Stanlio e Ollio” ricorda il nipote Massimo Martinelli, enologo e suo braccio destro nell’azienda di La Morra.
Un pomeriggio organizzato dal Consorzio per la tutela dell’Asti, di cui Renato fu per moti anni direttore. Uomo di Langa, ma capace di guardare oltre gli orizzonti. Da qui quel “Renato Ratti dal Barolo all’Asti senza confini”, titolo della giornata. Occasione per presentare e proiettare “Renato Ratti. L’innovatore del Barolo”, un documentario-film
nato dalla collaborazione tra la cantina Ratti e le case di produzione StorieDoc e Stuffilm, realizzato dallo sceneggiatore Tiziano Gaia e dal regista Fabio Muncari. In sala erano presenti molti protagonisti che hanno scritto con Ratti la storia del mondo del vino italiano a cavallo di tre decenni, dagli Anni 60 agli 80. Sollecitati dal giornalista Sergio Miravalle hanno raccontato e ricordato.
“Quando la Cinzano lo mandò a gestire le tenute in Brasile - racconta Gigi Rosso<(B>, uno dei patriarchi del Barolo - ci scrivevamo quasi tutte le settimane. Era un uomo che aveva le ali. E in Brasile è stato un grande: lui arrivava sempre un attimo prima degli altri sull’obiettivo. Quando arrivavamo noi, lui aveva già capito. Aveva uno squisito senso dell’umanesimo unito all’ironia. Quando tornò dal Brasile era appena uscita la tv a colori: mi chiese di andare a comprarne una per sua madre che pianse di gioia. Era un rivoluzionario umano”.
Amico e collega, Angelo Gaja lo ricorda così: “Ratti fu un uomo di grande conoscenza, colto, dotato di un grande intuito, capace di capire prima degli altri. Un uomo onesto con la schiena dritta aperto al dialogo costruttivo. Nell’Albese abbiamo qualche piccolo rincrescimento: non tutti hanno capito la sua grandezza. È stato uno di quei grandi produttori che con le loro capacità hanno portano beneficio agli altri. Non so chi sarebbe riuscito a fare l’accordo interprofessionale del Moscato con tutti i bastoni che gli hanno messo tra le ruote. Lui ci riuscì. Dobbiamo ricordarci che erano gli anni in cui regalavi il Barolo perché si vendeva il Dolcetto. E lui rincarava le bottiglie di Barolo. Ratti era il prototipo dell’uomo glocal che difendeva le scelte di territorio: l’uva la produciamo qua, la raccogliamo qua e la vinifichiamo qua. Se andavi nelle cantine piemontesi, i produttori avevano botti usate e strausate: i giovani enologi come Ratti, ma anche Cordero, Rivella, Cima, dicevano “brusa tut”, brucia tutto. Erano gli anni in cui Paolo Desana faceva nascere le Doc. Tutti hanno aiutato a promuovere la modernizzazione”.
Ratti inizia a lavorare sul concetto di cru, si dedica alla cultura e alla comunicazione: scrive articoli, libri e manuali di degustazione. Sua è l’idea della bottiglia Albeisa, ancora usata oggi da quasi tutti i barolisti, e dell’associazione Unione Produttori Vini Albesi. È in prima linea nella stesura dei disciplinari insieme a Paolo Desana, ispira campagne pubblicitarie che passano alla storia, disegna la prima mappa dei vigneti di Langa.
“Fu Vittorio Vallarino Gancia a chiedere a Renato Ratti di fare il direttore del Consorzio dell’Asti. Io ero presidente - dice Renzo Balbo - arrivavo da un laurea in Medicina. Eravamo tutti marziani. Ratti portava avanti il suo risorgimento umanistico. Pensava che l’agricoltura fosse parte della conoscenza delle cose fondamentali della vita. Credevamo nelle medesime cose. L’agricoltura è alla ricerca di cultura e coltura. Ratti mi ha anche amato per una definizione che davo della birra: nel dizionario della Crusca, si diceva che era la bevanda propria dei paesi che non hanno vino”.

“Una figura che ha saputo interpretare il “magismo” contadino con la modernità”, rileva l’antropologo Piercarlo Grimaldi.
“A malapena si faceva un caffè - rivela la moglie Beatrice - sono stata 26 anni accanto ad un uomo straordinario. È stata una grande gioia vivere con lui. Veniva a trovarmi a Costigliole d’Asti da Mango. Mia nonna mi diceva: attenzione agli avventurieri che arrivano dall’estero! La sua proposta di matrimonio fu: vuoi venire con me in Brasile? In Brasile ho avuto una vita durissima perché lavorava sempre”.

E Renato papà? “Molto dolce. Anche se dal ‘76, quando è andato a lavorare al Consorzio, lo vedevamo poco” ricorda Pietro Ratti, che, dal 1988, anno in cui Renato morì a soli 54 anni, porta avanti l’azienda di famiglia a La Morra, mentre il fratello Giovanni fa l’avvocato a Milano.

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