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L’agricoltura intensiva, che controlla l’80% delle terre coltivabili del pianeta, non riesce a sfamare tutti. La soluzione è un ritorno al passato, come propone il professor Miguel Altieri, tra i massimi esponenti di agroecologia al mondo

L’agricoltura intensiva, che pure controlla la stragrande maggioranza delle terre coltivate al mondo, almeno l’80% per l’esattezza, non è in grado di sfamare l’intera popolazione mondiale, al contrario, crea iniquità, favorisce la desertificazione e, soprattutto, concentra nelle mani di pochi dinamiche fondamentali come quella della produzione e del commercio delle derrate alimentari. Nel restante 20% delle terre coltivabili, invece, resiste, o torna a vivere, una maniera diversa di fare agricoltura, che affonda, letteralmente, le proprie radici nel passato, nelle tradizioni più antiche, creando un’alternativa non solo tecnica, ma anche e soprattutto sociale ed economica che si propone di ribaltare il paradigma attuale: è l’agroecologia, una pratica che fa dell’equilibrio la propria cifra stilistica, come ha raccontato dal palco del Teatro Carignano di Torino, all’incontro “L’agroecologia può salvare il mondo?”, nella cornice di “Terra Madre Salone del Gusto” (fino al 26 settembre, www.salonedelgusto.it), Miguel Altieri, tra i massimi esperti al mondo in materia, e docente di Agroecologia alla University of California di Berkeley.
“La storia dell’agroecologia dimostra che un approccio diverso, capace di sostituire le policolture alla monocoltura, l’integrazione con il mondo animale al posto dei trattamenti chimici, in un equilibrio ambientale in grado di recuperare terreni resi fertili ed improduttivi da decenni di agricoltura intensiva, è possibile ed efficace - spiega il professor Altieri - il livello produttivo raggiunto con l’agroecologia è il doppio di quello reso possibile dalle monocolture, tanto che l’80% di ciò che mangiamo, in realtà, non arriva da quell’80% di terreni coltivati intensivamente, ma dal restante 20%”. Gli esempi migliori arrivano dal Sud America, dove le organizzazioni di “campesinos”, con movimenti realmente rivoluzionari (basti pensare al Brasile), sono rientrati in possesso delle proprie terre, diventando un esempio per tutti, specie in un mondo in cui il land grabbing, ossia l’acquisto di milioni di ettari di terre da coltivare da parte delle multinazionali del cibo, è diventato tra i problemi più urgenti, con la Cina che controlla 80 milioni di ettari di terreni coltivabili in Africa.
Il problema, evidentemente, è tutto politico, ci vuole una forte presa di coscienza, che porti “anche gli europei, i più indietro da questo punto di vista, a lottare per riprendersi le proprie terre - dice Miguel Altieri a WineNews - come abbiamo fatto, e stiamo ancora facendo noi in Sud America, a partire dal Brasile, sperando che la caduta del Governo Youssef non ci faccia tornare indietro”. Politica che va di pari passo con le grandi questioni antropologiche e sociali, come le migrazioni, anche se “nessuno vorrebbe lasciare la propria terra - aggiunge Anuradha Mittal, fondatrice dell’Oakland Institute, think tank internazionale di politiche alternative - le proprie radici, il luogo dove è nato e dove sono sepolti i propri genitori: sono le scelte della finanza e della politica che creano povertà, rendono aridi i terreni e spingono milioni di persone a cercare fortuna altrove”. Specie in Africa, un Continente dalle potenzialità enormi, come racconta la storia di Yacouba Sawadogo, agricoltore del Burkina Faso che, da 40 anni, ha riportato in piena produttività quella che una volta era una landa desertica di 25 ettari, attraverso pratiche agricole sostenibili diventate popolari anche in altri Paesi africani, come il Mali, diventando un esempio per tutti di come, in un certo senso, la soluzione ai problemi futuri, potrebbe arrivare proprio dal passato.

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