C’è una tendenza, positiva, che sta prendendo sempre più piede: l’informazione sul cibo che arriva sulla nostra tavola. Si parla di etichette d’origine sugli alimenti, di chilometro zero, di biologico. Ma ancora poco si parla del pesce. Slow Food da otto anni organizza a Genova Slow Fish, manifestazione gastronomica di scena proprio nei giorni scorsi che, tra finger food e laboratori sul pesce, offre una numerosa serie di conferenze che vogliono dare spunti di riflessione su argomenti molto importanti. Quale situazione vivono i nostri oceani? Quali specie di pesce rischiano l’estinzione? Abbiamo il potere di cambiare il mercato? Dobbiamo smettere di mangiare pesce? C’è un futuro per i piccoli pescatori artigianali? Si tratta non solo di riscoprire gusti dimenticati, sapori diversi che il mercato globalizzato tende a far scomparire, ricette nuove o aggiornate ma, soprattutto, di approfondire le nostre conoscenze sulle comunità di pescatori, sulle pratiche di pesca antiche, sugli stili di alimentazione delle generazioni precedenti, sulle risorse conosciute e sconosciute custodite da fiumi, laghi e mari.
I prodotti ittici costituiscono la fonte di proteine per 3 miliardi di persone nel mondo, e il reddito di 800 milioni di persone si fonda sulla pesca e sull’industria ittica. Nel 2014, nei Paesi europei, sono stati spesi 34,57 miliardi per acquistare prodotti ittici, per un consumo complessivo di 7,5 milioni di tonnellate di pesce (33,4 chili pro capite contro i 19,2 chili consumati in media a livello globale). Di questi, 2,75 milioni di tonnellate sono pescati localmente, i restanti 5 milioni sono prodotti di importazione. Queste sono le cifre che introducono al nuovo report di Wwf, “Gusti locali, mercati locali - Le risorse ittiche e il Mediterraneo”, presentato proprio a Slow Fish nella conferenza “Da dove viene il pesce che metti in tavola?”.
Un tempo, si legge nel report, il Mediterraneo possedeva una quantità di stock ittici superiore alle necessità, che supportava intere comunità e forniva un elemento chiave della famosa dieta salutare mediterranea. Dal polpo al tonno rosso, dai gamberi di acque profonde al pesce spada, tutto il pescato proveniva dal mare antistante. Oggi, invece, il pescato che finisce sulle tavole europee è importato, e per la maggior parte proviene dai paesi in via di sviluppo. Ovviamente la situazione varia da specie a specie e se per le sardine e le acciughe ci affidiamo a pesce interamente pescato localmente, nel caso di tonni e pesci spada il pescato locale costituisce appena il 25% e in quello dei cefalopodi i prodotti di importazione costituiscono addirittura l’82%. Inoltre, nel Mediterraneo, il 93% degli stock ittici sono minacciati dalla pesca eccessiva, il che significa che “se le attuali pratiche di pesca non verranno modificate, le popolazioni ittiche non riusciranno a riprendersi e collasseranno”.
L’analisi del report, però, non si focalizza solo sui numeri, ma anche sul potere dei consumatori che, attraverso le loro scelte, possono contribuire a invertire la rotta. Il problema è complesso, ma le azioni da intraprendere sono tutte relativamente semplici. La base di tutto è la consapevolezza: informarsi sull’origine del pesce che si acquista; privilegiare il pescato locale; qualora si acquistino dei prodotti industriali affidarsi a quelli provvisti di certificazione. Slow Fish è un evento che mette tra i suoi obiettivi principali proprio il cercare di far comprendere come le scelte informate corrispondano anche a un sapore più buono, fresco, e locale.
E a pochi chilometri da Genova, sei comuni dell’entroterra tra la Valle Scrivia e la Val Polcevera sono riusciti a cambiare l’intera impostazione delle mense in appena due anni. La reintroduzione del pesce fresco e locale è uno dei cardini di questa piccola rivoluzione, alla base del ragionamento cardine delle conferenze di Slow Fish. “Sebbene i nostri comuni non siano sul mare, il pesce è a 20 km da noi: non volevamo che nelle nostre mense si mangiassero solamente bastoncini surgelati” racconta Rosa Olivieri, sindaca del comune di Ronco Scrivia che ha fatto da capofila al progetto. Al posto del solito pangasio hanno iniziato ad affacciarsi in tavola branzini del Tigullio, seppie, gallinelle, moscardini, platesse e sgombri. Con qualche difficoltà iniziale, sia perché approvvigionarsi non è sempre facile (anche tenendo conto delle normative, che impongono ad esempio di non servire pesce con lische), sia perché il nuovo corso ha comportato un po’ di lavoro in più per chi sta in cucina e suscitato reazioni differenti a seconda degli istituti. “Abbiamo lottato contro le diffidenze: le famiglie volevano tornare alla classica pasta in bianco, dicevano che il farro e l’orzotto non piacciono ai bambini, o che il pesce viene rifiutato perché puzza” conferma l’assessore all’istruzione del comune di Sant’Olcese, Gabriele Taddeo, che spiega: “per molti il cambio di abitudini era difficile da accettare perché si scontrava con vent’anni di refezioni uguali. Noi però non volevamo limitarci ad amministrare l’esistente”.
Questo progetto nelle mense, oltre che ad abituare i bambini ad un’alimentazione sana e con i prodotti della terra (o del mare in questo caso) serve anche a formare le loro coscienze. Il mondo ittico ha molti nemici oltre alla pesca eccessiva e al consumo disinformato: uno è il cambiamento climatico. Quel che si muove nel piatto non è questione di pura e semplice gastronomia. I grandi cambiamenti, a cominciare da quelli climatici, investono il nostro intero modo di vivere. Roberto Danovaro, presidente della Stazione Zoologica Anton Dohrn di Napoli, non ha dubbi: il cambiamento climatico è un tema che al momento sembra appassionare più la ricerca scientifica della politica e le persone che, normalmente, si interessano poco a quelle questioni rispetto alle quali non riescono a stabilire un nesso causa - effetto immediato. Eppure il cambiamento climatico ci riguarda da molto vicino e interessa tantissimo il mare, tanto più in un Paese come l’Italia, le cui coste si sviluppano per 7.500 chilometri e dove la superficie di mari su cui ha diritti ma soprattutto doveri si estende sulla bellezza di 500.000 chilometri quadrati. A elencare le prime cifre è l’ammiraglio Giovanni Pettorino, della Guardia costiera della Liguria, comandante del Porto di Genova. Il fatto che ponga l’accento sui doveri che abbiamo nei confronti del nostro mare non è indifferente.
“Il Mediterraneo è poco meno dell’1% dei mari del mondo, ma vede lo sviluppo di innumerevoli attività umane: migliaia di porti, il 20% del naviglio mondiale nelle sue acque, le industrie ... Il lavoro per consegnare questo bacino alle generazioni future è un compito arduo, difficilissimo”. Il messaggio è chiaro: il cambiamento climatico rappresenta una sfida importante, perché il mare sta sempre di più subendo gli impatti di questi cambiamenti e della fortissima antropizzazione delle coste, popolate, in 23 paesi, da circa 450 milioni di persone. “Quello che chiamiamo Pianeta Terra, in realtà, dovremmo chiamarlo Pianeta Mare, perché per tre quarti questo mondo è ricoperto dalle acque”.
Acque da proteggere, quindi, dall’altro grande nemico della popolazione marina, oltre al cambiamento climatico: l’inquinamento. Secondo Legambiente il 96% dei rifiuti galleggianti in mare è composto da plastica (di cui il 16% sono buste) e l’89% della fauna marina rischia di ingerirla. Non stiamo parlando solo di tartarughe che scambiano borse di plastica per meduse, ma soprattutto di detriti che con il passare del tempo e per effetto del calore diventano frammenti microscopici ed entrano a far parte della catena alimentare dei pesci. Le microplastiche hanno dimensioni inferiori ai 5 millimetri e a loro volta si frammentano in nanoplastiche, addirittura invisibili all’occhio umano, rilasciando in mare composti chimici tossici quali ftalati, perfluorurati, ritardanti di fiamma, per citarne solo alcuni. Slow Fish ha organizzato una serie di conferenze dedicate ai nuovi contaminanti dei mari, e i dati sono impressionanti. Marco Faimali, responsabile dell’Istituto di Scienze Marine del Cnr, è netto: “la media di microplastiche nei mari è troppo alta, in alcune zone del mondo si arriva ad averne 100 chili in un solo chilometro cubo”.
Ogni anno 8 milioni di tonnellate di plastica entrano in contatto con l’ambiente marino. Le microplastiche penetrano nel plancton che è alla base dell’intera catena alimentare marina. Un fatto preoccupante perché l’accumulo di sostanze tossiche negli esseri viventi aumenta man mano che si risale la piramide alimentare. Insomma, i contaminanti nelle acque marine sono un segnale allarmante. Ciò nonostante non esistono ancora leggi che fissino dei limiti di microplastiche nell’ambiente e nei prodotti alimentari. È a questo proposito che viene chiamata in causa Renata Briano, deputata europea vicepresidente della Commissione pesca. “Per emanare una legge è necessario far convergere tutti i settori, non solo quello ambientale. L’inquinamento dei mari ci costa 8 miliardi di dollari l’anno e le prime vittime sono i pescatori. Sono loro che dobbiamo incentivare e coinvolgere maggiormente nella pulizia dei mari”. A chi chiama in causa la mancanza di fondi destinati alla ricerca scientifica Briano risponde: “I soldi ci sono. Con i finanziamenti diretti abbiamo attivato linee di progetto che stanno avanzando e dando i primi risultati. Invece abbiamo urgentemente bisogno di investire quelle risorse in educazione e ricerca, incentivando chi mette in pratica attività di prevenzione”.
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