Aglianico e Vulture, un binomio inestricabile, un po’ come Nebbiolo e Piemonte o Sangiovese e Toscana, con ancora tanta strada davanti, perché tra Barile, Rapolla, Rionero, Melfi e Venosa ci sono decine di storie e centinaia di bottiglie da scoprire, protagoniste, ieri e oggi, della nuova tappa “on the road” di “Collisioni Vino”, il progetto enoico del celebre Festival Agrirock di Barolo, curato da uno dei più autorevoli wine writer mondiali, Ian D’Agata, e ideato con il direttore Filippo Taricco.
Ma cosa rende unico il più noto dei terroir della Lucania ? Prima di tutto, la sua storia geologica, con l’attività del vulcano che condiziona da sempre l’intero territorio del Vulture. L’ultima esplosione, avvenuta 130.000 anni fa, infatti, ha prodotto una coltre di cenere che si è presto compattata, formando quello che conosciamo come tufo vulcanico, che si comporta come una spugna: ha la capacità di assorbire l’acqua che cade durante la stagione invernale, e restituirla nei mesi estivi, diventando una vera e propria riserva idrica del territorio. Qui, dentro al cratere del Vulture, i contadini usano un’espressione poetica per raccontare questo fenomeno: “è il tufo che allatta la pianta”. Un aspetto importante, che rende perfetta la maturazione dell’Aglianico, che ha un ciclo estremamente lungo. Ma al vulcano sono legati anche altri aspetti, innanzitutto climatici: il Vulture raggiunge i 1.300 metri, ma è una vetta isolata, che espone la vite ai venti caldi delle giornate d’estate e freschi della notte, che arrivano dalla terra e dai tre mari che bagnano la Basilicata (Ionio, Tirreno ed Adriatico), e questo crea enormi e benefici sbalzi termici, persino superiori ai 20 gradi. Tutte queste caratteristiche, figlie del vulcano, nel bicchiere si traducono in maturazioni perfette dell’Aglianico che, come detto, ha un ciclo estremamente lungo, il che vuol dire una grande quantità di polifenoli e tannini, la cui maturazione, in condizioni climatiche favorevoli, porta a vini morbidi, bevibili ed eleganti.
Se il Vulture, così come lo conosciamo oggi, è figlio di un’eruzione esplosiva lontana decine di migliaia di anni, decisamente più recente è la storia del suo vitigno principe, l’Aglianico. Legata, per forza di cose, alla storia dell’antica Enotria, la “terra della vite coltivata con il sostegno di un palo”, che comprendeva buona parte dei territori oggi divisi tra Campania, Basilicata e Calabria. E che, storicamente, è stato il terzo centro di domesticazione della vite, dopo la Mesopotamia e la Grecia: qui nascono e prendono piede nuove forme di allevamento, ma anche nuove varietà nate dai primi incroci.
Siamo nel Secondo Millennio a. C., e se c’è un vitigno da cui tutto deriva, come emerge dallo studio “Basivin Sud”, un progetto nato nel 2008, frutto della collaborazione di Alsia (Agenzia lucana di sviluppo e innovazione in agricoltura) e Cra-Utv (Consiglio per la ricerca in agricoltura - Unità di ricerca di Turi, Bari), quello è il Pinot Nero, che potrebbe essere nato proprio qui, per arrivare poi nel Rodano solo dopo qualche secolo, grazie ai Focei, che nella metà del VI secolo a.C., avviano un intenso traffico marittimo con Massilia, l’attuale Marsiglia. E l’Aglianico? Sarebbe, ma il condizionale, almeno per ora, è d’obbligo, figlio del Pinot Nero che, come spiega il volume “Wine Grapes: a complete Guide to 1.368 vine varieties, including their origins and flavours”, di Jancis Robinson, Julia Harding e Jose Vouillamoz, è certamente il vitigno progenitore di Dureza, Mondeuse e Syrah, e molto probabilmente, appunto, dell’Aglianico.
Da qui, bisogna fare un salto in avanti di qualche secolo, fino all’Ottocento, per ritrovare tracce storiche del Pinot Nero in Basilicata, che ricompare nella Statistica Murattiana (1811) prima, e nella prima mostra enologica di Potenza (1887) poi, ma anche nel 1893, quando l’enologo Giovanni Bianchi istituì la prima regia cattedra ambulante di viticoltura ed enologia. Dopodiché, il Vulture diventa un territorio di approvvigionamento per le Regioni enoiche più importanti, Piemonte e Toscana su tutte, che hanno però bisogno di un vino da taglio che aggiunga colore e struttura. Il Pinot Nero, così, viene completamente espiantato, e sostituito dall’Aglianico, ancora oggi il vitigno più coltivato nel Vulture, ma chissà che in futuro non torni in auge proprio il Pinot Nero ...
Focus - La Basilicata enoica, con i suoi 3.000 anni di storia alle spalle, fa sistema e si apre al mondo, ospitando “Collisioni Vino”, con un film, “Wine to Love”, e una campagna di promozione che svela le ricchezze del Vulture, alla scoperta del suo vitigno più prezioso, l’Aglianico
Niente, come il cinema, è capace di far sognare ed innamorare, di storie e di luoghi che, spesso, non vedremo mai nella realtà. Alcuni, invece, sono più vicini di quanto si possa immaginare, magari nascosti e persino sottovalutati, come la Basilicata, terra di vino tutta da scoprire, pronta a svelarsi proprio sul grande schermo, con “Wine to Love”, il film scritto e diretto dall’attore lucano Domenico Fortunato e prodotto da Cesare Fragnelli, con Matera, Città Europea della Cultura 2019, sullo sfondo, e la filiera enoica a fare da fil rouge.
Del resto, il vino è un settore tutt’altro che marginale nell’economia lucana, con numeri certamente imparagonabili a quelli delle grandi Regioni enoiche del Belpaese, ma comunque importanti: conta su 5.196 ettari di superfici vitate, di cui 1.300 di Doc regionali, per 4.000 aziende viticole, di cui cento che producono le proprie etichette, per un totale di 400 etichette e 6,7 milioni di bottiglie di vino, che si traducono nel 2,6% della produzione agricola regionale.
Un piccolo mondo, su cui spiccano sei marchi di qualità: la Docg Aglianico del Vulture Superiore, le Doc Aglianico del Vulture, Terre Alta Val d’Agri, Grottino di Roccanova, Matera e l’Igt Basilicata, pronte a fare sistema per promuovere e valorizzare al meglio, insieme, il comparto, attraverso una sinergia tra produttori, Consorzi di tutela ed istituzioni. Protagonista assoluto, il Vulture, o meglio la zona ai piedi del monte Vulture, vulcano spento da millenni, con il suo vitigno più rappresentativo, l’Aglianico, al centro della tappa lucana di “Collisioni Vino”, il Progetto enoico del Festival Agrirock Collisioni, guidato da Ian D’Agata e sbarcato, ieri e oggi ,in Basilicata, con un tour che porta alla scoperta delle aziende lucane e dei suoi vini (da Tenuta i Gelsi a Cantine Terra dei Re, da Cantine di Plama e Strapellum a Cantine del Notaio, da Colli Cerentini a Donato D’Angelo, da Michele Laluce a Cantine Re Manfredi, da Cantina di Venosa a Paternoster Vini, a Tenuta Le Querce).
Incastonata tra Campania, Puglia e Calabria, per la Basilicata, non solo nel vino, dove WineNews è in viaggio “coast to coast” con Collisioni Vino, è difficile emergere come realtà distinta. Un aiuto le arriva, però, dalla storia: la vite ha origini antichissime, le prime coltivazioni risalgono agli Enotri, il popolo che tra il 1300 ed il 1200 a. C. abitava l’Italia meridionale, conosciuta allora come Enotria, secondo gli storici proprio per la qualità eccezionale del vino prodotto, a cui seguirono i Lucani. Fondamentale, però, fu il contributo dei Greci, che, alla fine del II millennio a. C., colonizzarono il Sud della penisola, dando non solo impulso alle economie locali, ma anche alla viticoltura, con l’introduzione di nuove varietà e forme di allevamento, a partire dall’alberello, ancora oggi usato in diverse zone della Basilicata, che meglio di altre si adatta ai climi caldi e siccitosi. La tradizione vinicola, quindi, continua in epoca Romana, e trova conferma nelle citazioni di Plinio e Stradone, tanto che, secondo alcuni studiosi, l’Aglianico del Vulture, prodotto nel Nord-Est della Basilicata, concorreva in maniera prevalente alla costituzione del Falerno, vino celebrato dai poeti dell’antichità classica come Orazio, nato proprio a Venosa, città lucana del Vulture.
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