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LA SCOPERTA

E se non fossero stati gli europei a portare la vite e il vino nelle Americhe?

Uno studio archeologico, nel Texas centrale, rivela tracce di vino (e caffeina) in frammenti di ceramica, risalenti a oltre 500 anni fa
ARCHEOLOGIA, vino, Mondo
Gli scavi archeologici nel Texas centrali, guidati dalla dottoressa Crystal Dozier

L’Europa, non è un segreto, è considerata storicamente il “Vecchio Mondo”, il continente storicamente più moderno e “tecnologico”, da cui sono partiti esploratori verso i nuovi mondi, esportando conoscenza, civiltà, cultura, del vino compresa. Ma se non fosse così? La rilettura della storia è in atto, in campo sociologico, umanitario, politico. E ora anche enologico: sì perché in uno scavo archeologico nel Texas centrale sono state scovate tracce di una bevanda che sembrerebbe essere vino, risalente a più di 500 anni fa, e cioè prima dell’arrivo dei “conquistatori” europei. La storia, per lo meno quella studiata fino ad ora, insegna che siano stati gli europei a portare la viticoltura nel Nuovo Mondo, ma ora emergono elementi da cui si può supporre che già i Nativi americani producessero vino da uva. Come si legge infatti sulla rivista americana “Wine Spectator”, le scoperte della dottoressa Crystal Dozier, archeologa, antropologa e professore associato alla Wichita State University, sono state pubblicate il mese scorso nel Journal of Archaeological Science: Reports con il titolo “Evidenza di residui chimici nella Leon Plain Pottery dalla fase di Toyah (1300-1650 d.C.) nelle pianure meridionali americane”, firmato con i ricercatori Doyong Kim e David Russell.
La ricerca delle origini del vino americano della dottoressa sono iniziate con studi precedenti che suggerivano che le popolazioni indigene nell’attuale Texas si riunissero per feste e riti, utilizzando ceramiche, un’attività inaspettata per i cacciatori-raccoglitori nomadi, che popolavano la zona durante quella che gli studiosi chiamano la “Fase Toyah”; si pensa che siano gli antenati di tribù come gli Apache Lipan. Inoltre, Dozier aveva letto diversi resoconti di esploratori spagnoli che parlavano di uve “selvatiche” coltivate nell’America pre-conquista. “Ma nessun accenno - osserva Dozier - alla vinificazione da parte dei nativi americani. Questo mi ha fatto venire voglia di scoprire ciò che esattamente gli indigeni mettevano nelle loro ceramiche”. Dozier e il suo team hanno esaminato 54 frammenti di ceramica scoperti nei sei siti dell’era Toyah, analizzando residui chimici microscopici e sperando che le tazze traboccassero di risposte antropologiche. L’analisi chimica ha rivelato la presenza di una bevanda contenente caffeina in alcuni campioni, e in altri, acido tartarico e succinico, entrambi comunemente presenti insieme nell’uva, e difficilmente presenti in qualsiasi altro frutto allo stesso tempo a quel livello di concentrazione (“eccetto il frutto della stella, che è originario del sud-est asiatico”, spiega Dozier).
“Questa è la prima prova chimica archeologica che indica una produzione autoctona di vino nelle Americhe, anche se certamente non è definitiva”, hanno scritto i ricercatori. Le implicazioni potrebbero essere enormi, ma sono necessari ulteriori studi, che potrebbero anche essere in grado di raccontare alcune caratteristiche del vino, se fosse bianco o rosso. Costringendo, di fatto, una rilettura della storia enologica americana.

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