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NEL BORGO DELLA VAL D’ORCIA

Il valore della terra raccontato dagli abitanti-attori del Teatro Povero di Monticchiello

S’intitola “Colòni”, l’autodramma n. 57 dello storico progetto culturale nato dopo la fine della mezzadria, quando il primo uomo sbarcò sulla Luna

Il 20 luglio 1969, la missione spaziale Apollo 11 portò per la prima i primi uomini sulla Luna, gli astronauti statunitensi Neil Armstrong, Buzz Aldrin e Michael Collins, e l’umana curiosità a spasso di un suolo mai prima di allora calpestato. L’allunaggio fu salutato ovunque come una potenziale premessa a un’epoca di grandi conquiste in cui le “magnifiche sorti e progressive” parevano doversi avverare. Tornando sulla Terra, in quegli stessi anni, le campagne italiane attraversano una profonda crisi collegata all’eclissi del sistema economico e sociale che ha caratterizzato per secoli la loro esistenza: la mezzadria. La popolazione si dimezza, mentre lavoro, cultura e tradizioni vanno rapidamente scomparendo, ma rimangono per sempre impressi nel cuore di chi la terra, quella natìa, calpestata da una vita, l’ha abbandonata forse per sempre emigrando in cerca di fortuna. Si intitola “Colòni”, l’autodramma n. 57 dello storico Teatro Povero di Monticchiello, ideato, discusso e recitato “in piazza” dagli abitanti-attori nello splendido borgo della Val d’Orcia Patrimonio Unesco (fino al 14 agosto).
Unica al mondo, e tradizione sperimentale che ogni anno propone un nuovo testo teatrale, la drammaturgia partecipata dall’intero Paese si interroga su questioni cruciali per la comunità e in cui chi guarda può di riflesso riconoscersi e ritrovarsi. Come l’essere coloni, ieri come oggi: se qualcosa davvero dovesse andare storto, se un domani fossimo costretti a una più radicale, estrema, definitiva partenza, a un abbandono coatto della nostra terra come quello cui furono obbligate generazioni di mezzadri, così come oggi accade ogni giorno a tante e tanti solo per aver avuto in sorte di nascere ad altre latitudini, ebbene, solo allora, forse, saremo in grado di porci infine il quesito cosa voglio con me? Di cosa ho davvero bisogno? A cosa non posso rinunciare? Di quale superfluo non posso fare a meno, affinché non debba ridurmi all’essenziale? Di certo c’è ci sarà sempre una terra, “gettata” sulla scena nello spettacolo, pronta ad accoglierci per darci tutto questo. O, almeno, così dovrebbe essere.
La prima rappresentazione in cui il progetto sociale e culturale del Teatro Povero di Monticchiello prese il volo, pur avendo iniziato da un paio d’anni a farsi le ossa nelle piazze, avvenne proprio la notte del 20 luglio 1969 e come sulla Luna, un medesimo ottimismo sembrò sbocciare dall’inizio dell’avventura teatrale in questo piccolo borgo della Val d’Orcia, allora valle spopolata e desolata, lunare davvero, nelle sue Crete Senesi da secoli ingentilite dal lavoro di mezzadri sofferenti ma operosi. Il primo autodramma portò in piazza la riproposizione della gloriosa battaglia partigiana avvenuta nel borgo il 6 aprile del 1944. In un Paese senza un teatro venne dunque deciso di aggregarsi attorno a un’idea di spettacolo in piazza, con una formula teatrale originale che presto diverrà tentativo di ricostruzione collettiva del senso e degli ideali delle proprie vite. Un modo per resistere alla crisi. Oggi il Teatro Povero è anche un esempio di cooperativa di comunità, un soggetto che in prima persona si è fatto carico di molti servizi per la piccola comunità di Monticchiello: il Granaio, la sede, ospita un emporio polifunzionale, un centro distribuzione farmaci (nel Paese non c’è farmacia), il centro internet, l’edicola, e allo stesso modo vengono gestiti “I Ristoranti di Bronzone”, una foresteria, un piccolo centro di accoglienza e integrazione, una ciclo-officina sociale, progetti educativi, aree verdi del Paese, laboratori e molto altro.
Epopee e speranze su diversa scala, dunque, quelle vissute sulla Luna e sulla Terra alla fine degli anni Sessanta. Speranze seguite da inesorabili disillusioni: perché l’epoca successiva ci ha donato sì meraviglie, ma anche, purtroppo, nuove sofferenze e storture, strozzature dell’uomo sull’uomo e di questo sulla natura. Per arrivare, venendo all’oggi e alla parte agiata del globo, la nostra, a una certo ammirevole e appagante eccedenza di tutto: merci, consumi e feticci. Una bulimia nella quale comincia però a farsi strada un vago senso di troppo, il dubbio che l’ostentata felicità dell’abbondanza nasconda anche inevitabili quote d’insensatezza, cui si accompagna anzi la percezione dell’incombere di una qualche forma di ritorsione per il di più, per l’eccesso, per il tracimare di cui abbiamo fatto regola comune e unica: sono scricchiolii di allarme, quelli della natura e del clima, che molti del resto preferiscono bellamente ignorare o direttamente negare in modo risoluto.

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