
Sempre più spesso sentiamo parlare di “sovranità alimentare” e veniamo invitati a consumare solo prodotti nazionali. In conseguenza della guerra Russia-Ucraina, ma anche in risposta ai dazi imposti dagli Usa, secondo la politica estera dell’“America First”, le cui radici affondano nell’Ottocento, che ha oltrepassato le due Guerre Mondiali, ed è tornata in auge con l’attuale Presidente americano Donald Trump che ha imposto tariffe ai prodotti importati negli States, da tutto il mondo, scatenando una vera e propria guerra commerciale a suon di contro-dazi. Temi che inevitabilmente rievocano un certo passato, durante il quale, con le stesse formule, fu mobilitata la società italiana. Nel 1935, infatti, dopo l’invasione dell’Etiopia e le sanzioni da parte della Società delle Nazioni, il fascismo trasformò le cucine italiane in trincee, contro un presunto “assedio economico”. Già i futuristi avevano tentato, con scarso successo, di rivoluzionare la gastronomia italiana, mettendo al bando la pastasciutta. Il regime, dal canto suo, provò a delineare una vera e propria cucina “antisanzionista”, fatta di riso, polenta, polli, conigli, karkadè e piatti dal sapore patriottico, come la trota salmonata alla Badoglio, il polpettone Macallè o il dolce alla Graziani. Una sorta di preludio alla cucina di guerra fondata sul niente, alla quale tutti dovettero forzatamente adattarsi a partire dagli anni Quaranta. Parte da qui l’excursus storico di “Quando il fascismo dettava la dieta. La propaganda a tavola, tra sovranità alimentare e autarchia”, il volume firmato dal professor Enzo R. Laforgia, con la prefazione di Alberto Grandi e Daniele Soffiati.
“L’impegno che il fascismo riversò nel tentativo di disciplinare la dimensione privata della preparazione e del consumo del pasto risulta coerente con la sua natura totalitaria. Potrebbe sembrare inopportuno il voler convincere gli italiani ad assumere uno stile alimentare sobrio e basato sul necessario, quando, in quegli stessi anni, gran parte della popolazione non aveva il problema di mangiare meno, ma quello di mangiare almeno una volta al giorno”, spiega l’autore del libro (Edizioni People, 2025, pp. 184, prezzo di copertina 15 euro), che insegna storia e filosofia nei licei, conduce ricerche su alcuni temi della storia contemporanea, tra cui la storia del Movimento di Liberazione, i rapporti tra cultura italiana e imperialismo e l’organizzazione della cultura in età fascista, ha collaborato con università e centri di ricerca in Italia e in Francia, ha svolto attività di consulenza, revisione e redazione di testi per l’editoria scolastica e scrive di storia per alcune riviste specializzate, e, tra le cui ricerche, spiccano gli studi dedicati allo scrittore Curzio Malaparte, pubblicati in Italia, in Francia e negli Stati Uniti.
Alberto Grandi, professore di Storia del Cibo e presidente del Corso di Laurea in Economia e Management all’Università di Parma, e Daniele Soffiati, suo sodale nel celeberrimo podcast Doi - Denominazione di Origine Inventata, sono coloro che hanno acceso il dibattito sull’esistenza della cucina italiana, oggi candidata all’Unesco, a partire dal volume “La cucina italiana non esiste. Bugie e falsi miti sui prodotti ed i piatti considerati tipici”, e secondo i quali “è vero che i prodotti italiani sono buonissimi, spesso i migliori al mondo, ma è falso che abbiano origini leggendarie, perse nella notte dei tempi. La ricerca storica attesta che la cucina italiana, intesa come prodotti e ricette della tradizione, è un’invenzione recente e, di fatto, un’efficace trovata di marketing: la narrazione della tradizione è spesso l’ingrediente contemporaneo che rende i nostri piatti ancora più gustosi”.
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