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Vino: WineNews inviato speciale a “Wine Future” di Hong Kong focus sui nuovi mercati di Giappone, Cina e India ... L’Asia del vino? Vuol dire un mondo, una miriade di mercati diversi, consumatori diversi, trend diversi per l’enologia del pianeta. A fare il punto sul presente cercando di interpretare i primi segnali di futuro ci hanno pensato alcuni dei protagonisti dei più importanti mercati asiatici del vino, maturi e potenziali, a “Wine Future” Hong Kong, con i maggiori opinion leader del settore, dove WineNews, il noto sito di notizie enologiche di Montalcino (Siena), è “inviato speciale”. Carl Robinson, Ceo dell’importatore “Jeroboam Co. Ltd”, di Tokyo, afferma: “Il Giappone ha una storia di consumo di vino relativamente giovane, e soprattutto abbinata alla ristorazione. Ci sono tanti ristoranti francesi e italiani, che infatti sono i primi due Paese stranieri che importano vino in Giappone. C’è una buona cultura del vino, e ci sono anche collezionisti di grandi bottiglie che però, a differenza della Cina, non comprano vino per “speculare” sul valore, ma per berlo. È un mercato semplice da approcciare, le tasse sono basse e semplici da capire, ci sono solo grandi player ma anche importatori e distributori più piccoli e specializzati, e il mercato offre tanti servizi di livello, dallo stoccaggio alla distribuzione”. Un ritratto positivo, dunque, ma dove non è tutto “rose e fiori”. Come spiega Ned Goodwin, unico Master of Wine del Giappone, “il consumatore del Sol Levante è certamente il più sofisticato in Asia, quello più attento ai dettagli”. “Ma le previsioni degli osservatori stranieri - aggiunge Goodwin - sono troppo ottimistiche: dopo il boom del consumo a metà degli anni ‘90, ci sono stati 15 anni di stagnazione, il consumo è solo di 2 litri a testa, e il prezzo medio cala sotto i colpi della recessione che ha colpito il Paese. Il cui mercato, sostanzialmente, si identifica con Tokyo, che assorbe il 70% del vino consumato”. Non di meno, i motivi per essere ottimisti non mancano: “si sta rapidamente passando dal canale Horeca ad un consumo domestico, e se una fino a qualche anno fa erano i sommelier a “decidere” il gusto, ora sono altri canali quelli che fanno opinione, dai fumetti “manga” alle riviste di life style. Insomma, conta molto di più la visibilità su una rivista che parla di lusso in generale che un grande magazine specializzato in vino. Anche perché in Giappone il giudizio o i punteggi dati da critici stranieri non contano più di tanto. E poi, paradossalmente, con la recessione e il morale del Paese non al massimo, il consumatore di vino è diventato più curioso, più attento alla sinergia salutistica del vino e legato al cibo, una tendenza guidata soprattutto dalle donne ben istruite e dalle giovani generazioni”.

Poco più a ovest del Giappone ecco la Cina, la grande, promettente e complicata nuova mecca del vino mondiale “dove 15 anni fa il vino importato era venduto solo negli alberghi delle città più grandi come Pechino o Shanghai, quelli che si possono definire i canali “tradizionali” in Cina, ed in generale era considerato un prodotto troppo caro e poco interessante per i cinesi” spiega Don St Pierre Jr, “Chief Executive Officer” di Asc Fine Wines, il primo importatore di grandi vini nel Paese. “Il 95% del consumo era basato sul vino cinese, che al massimo costava 3-4 euro a bottiglia. Ma i pochi anni le cose sono radicalmente cambiate: nel 2005 c’erano solo 180.00 casse di vino importate, oggi siamo a 1,8 milioni di casse da 9 litri, con la Francia che domina con 7,5 milioni di litri di vino, seguita dall’Australi (2,6 milioni) e dall’Italia (1,3). E si sono moltiplicati anche i canali “non tradizionali”: ci sono compagnie di Stato che fanno importazione e distribuzione di vino, c’è sono wine store e il retail, ci sono le città di seconda e terza fascia, ed è cambiata la percezione del vino”. Insomma, non ci bevono solo i grandi Chateaux da migliaia di euro o vini di bassissimo prezzo, ma anche tante bottiglie tra gli 80 e i 100 euro. “Il problema - aggiunge Don St Pierr - è che con il mercato è cresciuto anche il “caos”, ci sono più di 20.000 operatori, molti dei quali non hanno la professionalità necessaria, e c’è tanto contrabbando e molta falsificazione. Se ci fosse una regolamentazione più chiara e una maggiore contraffazione, le tasse potrebbero essere abbassate, a vantaggio di produttori e consumatori cinesi che diventeranno sempre più interessati e vorranno vini dal miglior rapporto qualità prezzo. E se i produttori locali non cresceranno in qualità, i vini importati aumenteranno la loro quota di mercato”. Insomma, l’ennesima conferma che le possibilità per avere nella Cina i “nuovi Stati Uniti del vino”, ovvero uno dei mercati più importanti anche per vini dal miglior rapporto qualità/prezzo, e non solo per gli entry level o per i vini da collezione. Ma che, forse, almeno all’inizio, è un mercato non alla portata di tutti. ‘‘Sono i gruppi vinicoli e le cantine più grandi quelle che hanno più possibilità di vedere crescere il loro mercato - dice Ian Ford dell’importatore Summergate - perché sono quelle a cui guardano i più grandi importatori, anche per i volumi di prodotto che possono avere a disposizione, e quelle che possono investire meglio nella costruzione di un brand, che è fondamentale più di ogni altra cosa oggi per vendere in Cina. Che nel 2020, probabilmente, assorbirà tra i 50 e i 100 milioni di casse importate”.

Ma tra i giganti asiatici non c’è solo la Cina. A sud-ovest c’è l’India dei giovani, con 1,2 miliardi di abitanti di cui il 50% sotto i 30 anni, “molti dei quali tra 15 anni saranno potenziali bevitori di vino, e dove la “middle class” con buona capacità di spesa sarà formata da 450 milioni di persone (quasi 8 volte l’intera Italia, ndr)”, spiega Subhash Arora, presidente della Indian Wine Academy ed editore di “delWine”, la prima newsletter del wine food in India, che va ogni settimana a 20.000 utenti. India che promette moltissimo, e che si candida ad essere non solo un grande mercato, ma anche il più grande produttore dell’Asia. Ma che forse è un mercato ancor più complesso della Cina stessa. “Il mercato è cresciuto del 25% all’anno negli ultimi 5 anni, e ci si aspetta sia lo stesso per i prossimi 5 anni. Oggi sono 220.000 le casse di vino importate, il 38% dalla Francia, il 14% da Italia e Australia. Ma ci sono tante cose da sistemare perché ci sia un vero e proprio boom. La prima complicazione è che ogni singolo stato (l’India è divisa in 28 stati federati e 7 “territori”) ha la facoltà di fare le proprie leggi sugli alcolici. Per esempio, l’Iva solitamente è al 20%, ma in alcuni casi si può arrivare addirittura al 55%. Senza contare un’accisa del 150%, il fatto che in alcuni stati le tasse sono calcolate in base al prezzo, che in alcuni c’è anche il proibizionismo. I prezzi? La maggior parte dei vini venduti è sotto ai 3 dollari. Nel retail si può arrivare a 5 dollari, nei ristoranti a 9 dollari. I vini venduti tra i 50 e i 500 dollari a bottiglia sono meno dell’1% del totale”. Ma oltre alle difficoltà fiscali e burocratiche, poi, c’è anche una grande carenza di infrastrutture adeguate alla filiera del vino: “cantine mal refrigerate, camion per il trasporto senza ventilazione e così via. Ecco perché chi vuole esportare vino in India - aggiunge Arora - deve mettere in piedi anche partnership di lungo termine e consulenze per colmare queste lacune che a volte sono anche dovute ad una scarsa conoscenza del prodotto-vino in generale. E per fare promozione e mercato serve che i produttori vengano spesso in India, a farsi vedere e a raccontare i loro vino”. Ecco una cosa che accomuna tutti i mercati dell’Asia (e, forse, del mondo): i rapporti personali sono importanti almeno quanto la qualità del vino.

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