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Agroalimentare: in Italia esistono 268 prodotti Dop e Igp, ma anche quasi 5.000 prodotti tradizionali. Un patrimonio “nascosto” con grandi margini di sviluppo e che vanno valorizzati: così la Cia - Confederazione Italiana Agricoltori

I prodotti tipici della qualità italiana possono favorire lo sviluppo territoriale, l’indotto, l’occupazione e il turismo locale. Ma c’è molto da lavorare. Oggi un prodotto tradizionale su 4 è a rischio estinzione nonostante tanti agricoltori-custodi. Eppure, se valorizzato tramite nuovi modelli di business, questo tesoro di biodiversità può valere 11 miliardi l’anno. Anche su Dop e Igp si può fare di più per far crescere il segmento. Oggi l’85% del fatturato è legato solo a 12 prodotti, è necessaria più promozione e investimenti sulle certificazioni meno conosciute. Non solo Dop e Igp, dove comunque l’Italia detiene il primato con 268 certificazioni iscritte nel registro Ue e un fatturato che supera i 13 miliardi al consumo: il Belpaese vanta anche ben 4.813 prodotti tradizionali che rappresentano la storia e la spina dorsale dell’agroalimentare italiano. Insieme raccontano quel patrimonio di biodiversità, fatto di sapori e tradizioni unici custoditi tra le pieghe del paesaggio rurale, che rende il “made in Italy” così ricercato sui mercati stranieri, ma anche così necessario per la ripresa dell’economia interna. Lo sottolinea la Cia - Confederazione Italiana Agricoltori.
È importante, infatti, con la crisi economica, investire e sostenere le produzioni di qualità tipiche e locali. Perché se è vero che solo il segmento delle Dop e Igp ha prodotto nell’ultimo anno un volume pari a 1,30 milioni di tonnellate, di cui oltre un terzo esportato, con un giro d’affari alla produzione di circa 7 miliardi di euro, è altrettanto vero che questo “business” potrebbe crescere molto di più: basterebbe potenziare ad esempio gli strumenti di promozione e marketing a sostegno di quei prodotti certificati ancora sconosciuti.
Oggi, quasi l’85% del fatturato totale del paniere Dop e Igp italiano è legato esclusivamente alle prime 12 denominazioni (Parmigiano Reggiano, Grana Padano, Prosciutto di Parma, Aceto Balsamico di Modena, Mozzarella di Bufala Campana, Prosciutto San Daniele, Gorgonzola, Bresaola della Valtellina, Mortadella di Bologna, Mela dell’Alto Adige, Pecorino Romano, Mela della Val di Non), che da sole realizzano oltre 5 miliardi di fatturato alla produzione.
È chiaro, quindi, che ora occorre sviluppare le tante certificazioni meno conosciute ma suscettibili di forte crescita, non solo aggregando le filiere e incrementando Consorzi partecipati da tutte le componenti produttive, ma soprattutto rafforzando la politica di promozione a partire dalle vetrine internazionali.
Discorso ancora più difficile è quello dei quasi 5.000 prodotti tradizionali. Di queste migliaia di specialità della terra, 1 su 4 è in via di estinzione, visto che attualmente è coltivata da poche aziende agricole che ne custodiscono la memoria. Dalla castagna “ufarella” del casertano al formaggio “rosa camuna” della Valcamonica, dalla fava di Leonforte dell’ennese al sedano nero di Trevi: tantissimi sapori spesso del tutto ignorati dai canali ufficiali della grande distribuzione organizzata, che sono anche i più vulnerabili di fronte alla minaccia del consumo di suolo. Eppure proprio queste specialità, riscoperte e portate avanti da agricoltori-custodi che fanno “bioresistenza” e molto apprezzate da chi fa “la spesa in campagna” e nei mercatini degli agricoltori, se valorizzate e riadattate a nuovi modelli di business (dalla vendita diretta alla creazione dei cosiddetti Sistemi alimentari locali), potrebbero valere 11 miliardi di euro l’anno con l’indotto, più del doppio del giro d’affari del turismo enogastronomico italiano (5 miliardi).
Più in generale, “dobbiamo cogliere l’occasione della nuova Pac - ha affermato il presidente nazionale della Cia Dino Scanavino - per realizzare queste nuove forme di organizzazione sul territorio, come i Consorzi e le reti d’impresa, che incentivino e valorizzino le nostre produzioni di qualità. D’altra parte, i prodotti tipici e tradizionali non solo rafforzano il ‘valore relazionale’ del cibo tra produttori e consumatori e garantiscono la sostenibilità, mostrando la capacità di evolversi nel rispetto dei cicli naturali en riproducendo i fattori della fertilità”. Soprattutto, ha chiosato Scanavino, “i prodotti tipici e tradizionali favoriscono lo sviluppo territoriale, l’indotto, l’occupazione e il turismo locale, diventando un vero e proprio fattore di marketing del territorio”.

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