In controtendenza all’andamento del made in Italy all’estero, si riducono le esportazioni di pasta dall’Italia, che fanno segnare un preoccupante calo in valore del 3% nel 2017, dovuto agli effetti della rapida moltiplicazione di impianti di produzione all’estero, dagli Stati Uniti al Messico, dalla Francia alla Russia, dalla Grecia alla Turchia, dalla Germania alla Svezia. È quanto emerge dall’analisi Coldiretti relativa ai primi nove mesi dell’anno, sulla base dei dati Istat sul commercio estero, che complessivamente registrano un +11,3% su base annua.
Il settore sta affrontando gli effetti della delocalizzazione che dopo aver colpito la coltivazione del grano sta adesso interessando la trasformazione industriale con pesanti conseguenze economiche ed occupazionali. Una deriva sulla quale può intervenire positivamente l’introduzione in Italia dell’obbligo di indicazione della materia prima a partire dal febbraio 2018 sull’etichettatura della pasta previsto dal decreto dei Ministri delle Politiche agricole Maurizio Martina e dello Sviluppo Economico Carlo Calenda, dopo che il Tar del Lazio ha respinto il ricorso presentato dai pastai dell’Associazione delle Industrie del Dolce e della Pasta Italiane - Aidepi.
Per i Magistrati è, infatti “prevalente l’interesse pubblico ad informare i consumatori, considerato anche l’esito delle consultazioni pubbliche circa l’importanza attribuita dagli stessi consumatori italiani alla conoscenza del paese di origine e/o del luogo di provenienza dell’alimento e dell’ingrediente primario”. Il provvedimento accoglie infatti le aspettative dell’81% dei consumatori che potranno avere informazioni importanti come quella di sapere se nella pasta che si sta acquistando è presente o meno grano canadese trattato in preraccolta con il glifosate, accusato di essere cancerogeno e per questo proibito sul grano italiano”.
Ma il decreto per l’etichettatura d’origine della pasta punta anche a contrastare le speculazioni che hanno provocato il crollo dei prezzi del grano italiano al di sotto dei costi di produzione con una drastica riduzione delle semine e il rischio di abbandono per un territorio di 2 milioni di ettari coltivati situati spesso in aree marginali.
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