Il mercato cinese, per il vino italiano, è un’eterna promessa di fatto, ancora, non mantenuta, nonostante gli investimenti ingenti degli ultimi anni. Ma l’analisi del mercato cinese non può che partire dall’osservazione che in confronto alla situazione dell’Europa, quella della Cina è migliore. E questo nonostante il Gpi cinese (Genuine Progress Indicator, indicatore del progresso reale dal punto di vista della qualità della vita) sia sceso dall’8% di qualche anno fa al 2%, che, in una progressione in continua crescita, segna una discontinuità importante che risulta sconvolgente per i cinesi. L’altro dato, poco noto e significativo di una congiuntura economica meno felice che in passato, è il tasso di disoccupazione che è pari al 6%, e riguarda la fascia di popolazione più giovane per il 17%. La Cina, dunque, che nonostante alcune ombre messe in luce già da diverso tempo, è considerata come il mercato vinicolo in più rapida crescita al mondo, sta attualmente attraversando cambiamenti radicali in ambito politico e sociale che suggeriscono un percorso diverso per il suo futuro. Alla domanda “Cina: ascesa o declino?” ha cercato di dare risposta l’incontro a wine2wine con Alberto Orengia, “costruttore” di mercati asiatici per importanti aziende italiane, e Andrea Sartori, presidente della Casa Vinicola Sartori con una lunghissima esperienza in particolare sui mercati esteri.
Per dirla con le parole di Andrea Sartori, raccolte da WineNews, “la tigre cinese si sta trasformando in un gatto. Pur mettendo da parte altri problemi che non sono stati ancora esplicitati, come la bolla immobiliare, si tratta di un mercato che causa grandi frustrazioni perché tutti i dati sono in discesa. Tuttavia ritengo che sia un mercato in cui credere, come 50-60 anni fa abbiamo creduto negli Stati Uniti, e nel Canada, in cui piano piano siamo riusciti ad arrivare dove siamo. Abbiamo visto in passato su mercati anche più facili della Cina quanta fatica si fa a conquistarli, ma dopo anni di lavoro paziente abbiamo visto risultati straordinari. In Cina è molto difficile perché ci sono barriere culturali, linguistiche, modalità di consumo diverse, ma si tratta di un mercato, destinato a diventare grandissimo, che non va abbandonato”.
A proposito di indicazioni in negativo, le importazioni di vino in Cina sono diminuite a doppia cifra. Nel 2021 l’import, pari a 1,5 miliardi di euro e 424,3 milioni di litri, si è ridotto del 13,3% rispetto al 2020 (secondo i dati delle Dogane cinesi analizzati dall’Observatorio Español del Mercado del Vino -Oemv). Il calo è stato provocato anche dalla debacle dell’Australia, che ha perso quote di mercato a causa dell’introduzione da parte del Governo di Pechino, a novembre 2020, di dazi sui loro vini che arrivano al 200%. Tuttavia il dato rilevante è che gli altri Paesi non sono riusciti a recuperare lo spazio lasciato libero dai vini australiani, anzi le esportazioni italiane - fotografate in luglio scorso da Istat e analizzate da WineNews - portano un segno negativo pari al 16% per 63 milioni di euro. “È chiaramente in atto una tendenza nazionalistica relativamente al consumo del vino - spiega Sartori - se una volta tra i consumatori cinesi bere vini di importazione costituiva uno status sociale, oggi invece c’è la tendenza a consumare vino di produzione locale e ad esserne anche molto fieri”.
Incrociando questi elementi, dalla stagnazione dell’economia al calo delle importazioni, si potrebbe pensare di desistere e abbandonare l’export di vino verso la Cina. “Niente di più sbagliato - insiste Sartori - non possiamo permettercelo. Molte aziende, purtroppo, stanno disinvestendo perché è un mercato costoso da mantenere, pretende la presenza di qualcuno in loco se si vuole consolidare, diversamente è impossibile farlo. Ci sono alcuni segnali positivi che incoraggiano a restare. Il consumo di vini entry level sta diminuendo e aumenta quello di vini posizionati su livelli più alti di prezzo, anche se su questo non ci sono dati precisi. C’è una discreta curiosità da parte dei consumatori e stanno crescendo i luoghi dove si può comprare e consumare vino anche nelle città di seconda fascia.
C’è ancora lo scoglio della cosiddetta “tolleranza zero” contro il Covid che in questo momento sta devastando l’economia cinese e, per quanto ci riguarda, i consumi di vino, visto che nelle zone in lock down i bar devono rimanere chiusi e i ristoranti chiudono alle 22. Per questo ora è tutto fermo, ma si spera che da marzo, con l’insediamento del nuovo governo, la tolleranza zero venga tolta o comunque profondamente modificata in modo che possa cambiare qualcosa, non solo per l’aspetto dei consumi, ma anche per tornare a viaggiare, a raggiungere quel mercato perché ora andare in Cina vuol dire fare una settimana di quarantena appena arrivati. Con questa prospettiva si potrà ricominciare a seguire adeguatamente questo mercato”. La Cina, dunque rimane un mercato con caratteristiche uniche ancora poco comprese, molto diverso dai suoi vicini asiatici. A fronte di una diversa congiuntura economica non cambiano le avvertenze per avere successo. Servono strategie e tattiche ad hoc per gestire un’efficace attività di distribuzione e strumenti specifici per comunicare con il suo pubblico e coinvolgerlo. E ancor più forte deve essere l’attenzione alla cultura del consumo di alcolici che sta cambiando. Radicata sul consumo del baijiu, il loro “liquore bianco” tradizionale che va fortissimo - 35/60 gradi alcol, ottenuto dalla fermentazione di diversi cereali - si sta aprendo ad altri prodotti. Birra, sidro, ready to drink, il cui consumo era impensabili fino a poco tempo fa, fino agli spumanti. Bevande che affollano lo stesso spazio dove il vino deve giocare la sua partita.
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