Trovatela, un’azienda come la Ferrero Italia che negli ultimi tre anni ha aumentato il fatturato del 23%-24%. Perché è vero che il settore alimentare cresce al rallentatore ma la società guidata dall’amministratore delegato Antonio Vanoli è una gradevole eccezione. Un mito, la Ferrero. Così come sono un mito marchi e prodotti come la Nutella, celebrata da Nanni Moretti, il Kinder o il Mon Cheri, a pieno titolo tasselli dell’immaginario gastronomico del Bel Paese.
Icone culturali, dunque. Un po’ come il Parmigiano Reggiano (3 milioni di forme prodotte da 508 caseifici per un controvalore di 850 milioni) o il Prosciutto di Parma (9 milioni di prosciutti marchiati da 189 aziende per 810 milioni di ricavi). Eppure il paragone è improprio. Perché sia il Parmigiano Reggiano sia il Prosciutto di Parma (ma anche il Prosciutto di San Daniele o il Brunello di Montalcino) sono legati indissolubilmente al loro territorio. Al contrario Ferrero Italia è solo una bella "provincia" del colosso dolciario fondato da Michele Ferrero nel lontano 1946. Perché ormai il gruppo Ferrero fattura all’estero circa il 70% dei suoi 4,7 miliardi di euro di ricavi. Lo conferma il fatto che su 15 stabilimenti solo 4 hanno sede in Italia. Un altro record per un comparto poco internazionalizzato come l’alimentare e caratterizzato da dimensioni medie d’impresa piuttosto ridotte.
Innovazione di prodotto, automazione industriale, investimenti nella rete di vendita. Sono questi i segreti che hanno consentito a Ferrero di crescere anno dopo anno senza effettuare mai un’acquisizione. Al contrario l’altro campione del made in Italy, cioè Barilla, con un giro d’affari di 4,7 miliardi (+6,8% sul 2003) nei settori della pasta, del pane e dei prodotti da forno ha puntato molte carte sull’acquisto del colosso tedesco della panificazione Kamps. Un’operazione difficile da digerire, quella in Germania, ma che nel 2004 ha dato le prime soddisfazioni consentendo alla società di ridurre di 100 milioni da 1,96 a 1,86 miliardi il suo debito netto mentre l’Ebitda (500 milioni di euro) è rimasto in linea con quello dell’anno precedente.
Decisamente migliori i risultati (327 milioni di ebitda) della controllata Barilla G. e R. Fratelli, la società che gestisce il business tradizionale del gruppo con i marchi Barilla, Mulino Bianco, Pavesi, Voiello, Wasa, Misko (Grecia) Filiz (Turchia) oltre a Yemina e Vesta (Messico). Mentre il mercato italiano si è confermato stabile, infatti, sono cresciuti i ricavi in Germania (+14%), Turchia (+18%), Francia (+9%) e Nord America (+8%). Bene anche l’altra controllata tedesca cioè la Harry’s Sca, specializzata nei prodotti da forno, che ha recentemente rilevato l’azienda russa Ufa.
Fra i campioni del made in Italy è stata però Campari, (714 milioni di ricavi nel 2003), azienda leader nel settore dei superalcolici, a effettuare la serie più incalzante di acquisizioni. Negli ultimi 10 anni la società controllata dalla famiglia Garavoglia oltre ad internazionalizzarsi ha rilevato una serie di marchi italiani controllati da gruppi esteri. Come è avvenuto nel ‘95 con Cynar, Biancosarti, Crodino, Lemonsoda, Oransoda e Crodo. E poi nel ‘99 con Cinzano. Al contrario i brand acquistati nel 2001 (Old Eight, Drury’s e Liebfraumilch) e Gregson’s hanno rafforzato la posizione del gruppo rispettivamente in Brasile e in Uruguay. Mentre è greca Ouzo 12.
Sempre nel 2001 Campari fa il colpo grosso rilevando la maggioranza di Skyy Spirits, la società che controlla Skyy Vodka rafforzando così la sua posizione negli Usa. L’anno successivo è la volta di Zedda Piras e Sella & Mosca seguiti nel 2003 da Riccadonna. Infine, rilevando nel 2003 Barbero 1891 il gruppo Campari ha riportato in mano italiana i marchi Aperol e Aperol Soda.
Cioccolato, pasta e superalcolici, dunque. Ma anche la carne con Cremonini e il latte con Granarolo. Il panorama del made in Italy a tavola è più vario di quanto non si creda. Granarolo, ad esempio, per ora ha deciso di puntare sul solo mercato nazionale diventando il numero uno nel comparto del latte fresco. Nel 2004, il gruppo guidata da Luciano Sita, ha fatto rotta sullo yogurt rilevando la gestione di Yomo, un marchio prestigioso caduto in una grave crisi. L’obiettivo: riportare entro il 20062007 ai fasti di un tempo il campione dello yogurt italiano. Sistemata questa partita, però, è probabile che la società emiliana cominci a guardare oltre confine. Anche perché l’Antitrust ha bloccato eventuali nuove acquisizioni nel comparto del latte fresco.
Quanto alla Cremonini è un’azienda che trae dall’alimentare solo il 50% del giro d’affari complessivo (2 miliardi di euro). Nel settore della carne, quindi, i ricavi del gruppo sono pari a circa 1 miliardo di euro attraverso la gestione di macelli e il marchio Montana (150 milioni di fatturato). Certo, la carne non è un settore molto redditizio, tuttavia la società fondata da Luigi Cremonini e guidata oggi dal figlio Vincenzo è di gran lunga il numero uno del settore controllando il 22,5% per cento del mercato. Gli stabilimenti del gruppo, però, marciano solo al 75% per cento delle proprie capacità. E allora? La scommessa è di saturare mano a mano sempre di più gli impianti conquistando nuove quote di mercato e aumentando la redditività della produzione.
Da "La Repubblica - Affari & Finanza"
Autore: Giorgio Lonardi
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