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SLOW WINE FAIR

Dal campo ... alla tavola: il ruolo dei cuochi nel rapporto tra produttori e consumatori

Il recupero di colture perdute, la valorizzazione delle filiere e un approccio etico al cibo al centro dell’Alleanza dei Cuochi di Slow Food

Il ruolo dei cuochi, da anni, ha subito cambiamenti radicali: non più meri trasformatori di materie prime, ma tramite tra i produttori e le masse dei consumatori, diventando fondamentali nella salvaguardia e nella valorizzazione di intere filiere, dal vino al formaggio, dalla carne (con un approccio etico) al grano. Un processo accelerato dalla pandemia, che se da un lato ha messo alle corde l’intero settore della ristorazione, dall’altro l’ha spinto a stringere ancora di più le fila di una rete - quella dell’Alleanza dei Cuochi di Slow Food - capace di accogliere, al suo interno, agricoltori, allevatori, casari e, ovviamente, cuochi di ogni parte d’Italia, costruendo rapporti virtuosi e mutualistici, che hanno permesso a tanti produttori di di uscire dalla crisi e farsi conoscere nei propri territori ed in tutto il Belpaese, come raccontano dall’incontro nazionale dell’Alleanza dei Cuochi n. 5, alla “Slow Wine Fair” by Slow Food & BolognaFiere, di scena a Bologna (anche oggi e domani), Paolo Betti del “Rifugio Maranza”, Roberto Crocenzi de “La Taverna di Montisi” e Luca Doro della “Pizzeria Doro Gourmet”.
L’approccio dei cuochi di Slow Food, del resto, non è più una nicchia, ma una filosofia sposata da sempre più consumatori, perché capace di dare una risposta ai profondi cambiamenti in atto nel mondo. La ristorazione, infatti, è cambiata nella sua dimensione globale, e la visione di Slow Food non è certo una moda passeggera, ma al contrario ha reso i cuochi portatori attivi di innovazione, fino a farla diventare tradizione. In un contesto che permette la ridefinizione di un modello per reinterpretarlo alla luce della contemporaneità. La dimensione della trasformazione, come detto, non è l’unica, perché raccontare e spiegare cosa c’è nei territori da cui arrivano i prodotti è diventato fondamentale, ed in questo “cantiere” i cuochi si riscoprono, al pari dei vignaioli, i motori dei territori, tanto che oggi un ristorante o un’osteria sono molto di più, sono energia per innescare l’elemento della comunità, creando insieme a clienti e produttori una dimensione che si riconosce in questo modello.
“Quello di Rifugio Maranza (in Trentino, ndr) è un progetto nato 15 anni fa, e adesso siamo arrivati alla chiusura di un cerchio, arrivando a reperire solo materie prime e produttori del territorio, e facendo rete con altri cuochi per ottimizzare il lavoro e le energie di tutti. Inoltre, abbiamo creato un progetto sociale di recupero dei grani antichi e ortaggi coltivati su tre ettari, gestiti da ragazzi disabili, dando un ruolo sociale al nostro lavoro. Il cibo, così, è diverso, perché so da dove arriva e chi lo produce, da ragazzi straordinari che lavorano all’aria aperta”, racconta Paolo Betti, anima di “Rifugio Maranza”. “Anche a livello di allevamento, la gestione degli animali è libera, ma l’aspetto per me più importante è portare in giro le mie idee, confrontandomi con i colleghi in cene a quattro mani, così da conoscere nuove esperienze e punti di vista, e ovviamente cuochi bravissimi, in Italia come all’estero, dove ho trovato esperienze tradizionali bellissime”.
Una sfida enorme per la contemporaneità è quella della riduzione del consumo di carne, perché il suo impatto sulla filiera agricola è enorme. In questo senso, la carne è stata spesso criminalizzata, ma è possibile un allevamento sostenibile, basato sul pascolo e su numeri ridotti, e che garantisca agli animali un trattamento ed una vita degni, facendo dell’allevamento una filiera sostenibile ed etica. Il pascolo, parlando di bovini, aggiunge nutrienti importanti, ma è complicato trovare carni allevate così, specie in un mondo occidentale abituato a mangiare troppa carne. “Il mondo dei consumatori, così, si polarizza, tra i vegani e chi se ne frega, ma in mezzo può esistere un modello diverso, fatto di scelte complicate”, dice Roberto Crocenzi de “La Taverna di Montisi”. Partendo da un presupposto, ossia che “non c’è nulla a cui va prestata più attenzione che a sé stessi e al proprio corpo. E, di conseguenza, al cibo. “Il cibo è la mia medicina”, diceva Ippocrate, ed è vero. Dobbiamo mettere dentro il miglior carburante che ci sia. Tra i produttori e le masse dei consumatori, ci sono i cuochi, chi viene da noi cerca un’esperienza, non importa che mangi pane e cipolla o un menu da 7 portate. Cibo e vino sono strumenti, con cui far dialogare attraverso la mediazione di noi cuochi, produttori e consumatori consapevoli. La filiera della carne che troviamo al supermercato è vomitevole, io voglio essere certo che un animale, prima di essere ucciso per diventare carne, abbia vissuto una bella vita. Da qui nasce la ricerca di aziende che allevino gli animali in maniera eticamente giusta, perché siamo onnivori da sempre, ma è giusto che si rispetti il ciclo vitale degli animali e la loro natura, allevandoli in libertà e lasciando che si nutrano di ciò che trovano”, racconta ancora Roberto Crocenzi.
Luca Doro, nella sua “Pizzeria Doro Gourmet”, ha, invece, creato con i suoi clienti “un rapporto di empatia, fondato sulla costruzione di una filiera sostenibile, che nasce dai grani e dai cereali e arriva alle nostre pizze, con tanti presidi Slow Food, di contadini con cui abbiamo iniziato un progetto: “L’impronta”. L’obiettivo è quello di fare rete con i produttori, che hanno sofferto molto in questi due anni di pandemia. Abbiamo adottato i terreni incolti e interi presidi, coltivando grani dimenticati e riportando in produzione oliveti abbandonati. Vogliamo che i nostri produttori diventino pionieri tra la gente, perché da noi il consumatore cerca un’emozione”, conclude il pizzaiolo e panificatore campano.

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