Si può pensare di vendere frigoriferi agli eschimesi? Ovviamente sì. A patto che siano quantomeno competitivi con gli igloo. Allo stesso modo, l’ambizioso progetto di aprire 880 pizzerie in Italia del gigante Usa Domino’s Pizza (4,17 miliardi di dollari di fatturato e 18.000 punti vendita in 90 Paesi del mondo) non era certo campato in aria. Eppure, qualcosa è andato storto. Sbarcata nel Belpaese nel 2015, Domino’s Pizza non è mai riuscita a sfondare. Al contrario, le 29 pizzerie aperte negli scorsi anni (un trentesimo del target iniziale) hanno accumulato 10,6 milioni di euro di debiti. Un disastro, che ha spinto il presidente di Domino’s Pizza Italia, Marcello Bottoli, a chiudere i battenti e dichiarare fallimento.
Un insuccesso annunciato, perché l’Italia non è solo la patria della pizza, ma è anche uno dei Paesi in cui si mangia meglio al mondo. Difficile conquistarne i palati con impasti rivedibili, prodotti di scarsa qualità e condimenti arditi, per non dire “oltraggiosi”. La famosa pizza all’ananas, o “pizza hawaiana”, lanciata nei primi anni Sessanta in Canada da un ristoratore greco, in effetti non è che la punta - simbolica - di un iceberg destinato a sciogliersi lentamente.
Oltre al fronte qualitativo, dove il paragone con una qualsiasi pizzeria è apparso subito ingeneroso, se n’è poi aperto un altro. Quello del modello di business di Domino’s, che appena arrivata in Italia aveva puntato fortissimo sulla consegna a domicilio, servizio che l’ha resa celebre ovunque, e che in pochi, all’epoca, garantivano. Peccato che nel giro di pochissimo tempo il food delivery sia letteralmente esploso, azzerando l’unico vantaggio competitivo della catena Usa. Quando un’azienda chiude i battenti, ovviamente, non c’è mai da essere felici. Si parla di posti di lavoro, stipendi e famiglie, ma l’augurio, vista la pecunia di manodopera nella ristorazione, è che tutte queste professionalità possano presto ricollocarsi in pizzerie degne di questo nome.
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