Le tendenze, quando si parla di cibi, sembrano non finire mai. Se ormai i “vegan” sono una realtà affermata, i seguaci della paleodieta si moltiplicano, e i “foodie”, la comunità dove chef, artigiani, contadini, produttori di formaggi e allevatori hanno come solo credo quello di vendere e consumare esclusivamente gli alimenti di quel fazzoletto di terra, sono all’ordine del giorno, adesso arriva una nuova onda enogastronomica: il “climatarianesimo”. I “climatariani”, che stanno già scalando in America le classifiche delle comunità fondamentaliste del cibo, sono persone che non solo scelgono il cibo in base alla qualità, ma anche in base all’impatto ambientale che ciascun alimento ha sul pianeta.
Qualche esempio? Mangiare una bistecca non è solo una decisione antivegetariana o (se consumata in eccesso) poco salubre, ma anche altamente inquinante. Gran parte dello smog che affligge le nostre città, e di cui in questi giorni discutiamo accalorandoci, viene prodotto dagli allevamenti intensivi.
È per questo che c’è chi identifica nella carne di coniglio un alimento meno inquinante: non viene prodotta in modo intensivo e, anzi, è utilizzata nei progetti umanitari dove si interviene per carenze alimentari (ad Haiti, per esempio). Ma i “climatariani” sono attentissimi anche all’acqua che consumano, ai contenitori adoperati, ai formaggi.
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