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E’ “ora di fare sul serio”: le conseguenze politiche, sociali ed economiche della Brexit sul tessuto agroalimentare del Regno Unito, secondo un paper accademico, potrebbero creare uno sconvolgimento degno “di un’economia di guerra”

L’uscita dall’ecosistema politico ed economico dell’Unione Europea, da parte del secondo mercato del vino al mondo, è stato un argomento comprensibilmente affrontato a più riprese dalla stampa specializzata, ma non altrettanto è stato fatto per le conseguenze pratiche della Brexit sull’economia alimentare, e sul settore agricolo, del Regno Unito. A farlo ci hanno però pensato tre accademici del Paese - Tim Lang, Erik Millstone e Terry Mardsen - con un paper intitolato, eloquentemente, “A Food Brexit: time to get real” (https://goo.gl/6YX9Zc). Un documento nel quale i tre esaminano a fondo cosa potrebbe attendere i consumatori, gli agricoltori e l’intera società britannica se la politica non considerasse abbastanza attentamente le conseguenze di una “hard Brexit”, e arrivando alla conclusione che cambiamenti così repentini e di tale portata potrebbero creare uno shock alimentare, nutritivo e sanitario degno di un’economia di guerra.
La politica agroalimentare del Regno Unito è, secondo i tre accademici delle Università di Londra, del Sussex e di Cardiff, prossima a una svolta senza precedenti, e di portata ancora maggiore di quella datata 1846 - quando il Parlamento dell’isola, tramite la revoca delle “Corn Laws”, abolì definitivamente la sua autarchia in materia, accettando di acquistare derrate alimentari dal miglior offerente internazionale. Offerente che, dal 1970, è proprio quell’Unione Europea che ora il Paese vuole lasciare: vasto programma, se si considera che circa un terzo di tutto il cibo e delle bevande analcoliche consumati nel Regno (il 31% in valore, ovvero circa 70 miliardi di Euro) proviene da altri Stati membri dell’Unione. Quella stessa Ue che è, di converso, la meta ultima di non meno del 70% di tutte le commodity agroalimentari esportate dall’UK, come cereali, zucchero e carni bovine e ovine. Senza considerare, inoltre, il fatto che non è possibile ovviare a questo ovvio ed enorme problema con una “semplice” riconversione di massa delle colture. Global warming o meno, non è realistico aspettarsi che l’agricoltura britannica possa sperare di fornire quell’85% di tutta la frutta, o quel 45% di tutta la verdura, che i sudditi di Sua Maestà consumano ogni anno: prodotti che, tra l’altro, vengono cresciuti e commercializzati sotto l’ombrello normativo europeo, che tutela in maniera molto più radicale di altri la salute dei consumatori e la sicurezza alimentare. Inoltre, lo stato attuale della bilancia commerciale agroalimentare del Paese consente al Regno Unito di “esternalizzare”, in un certo senso, le emissioni di gas serra dei prodotti che consuma, ed è difficile vedere come il settore agricolo britannico potrà non solo coprire l’ammanco, ma anche solo continuare ad operare ai ritmi attuali, senza quei 3,38 miliardi di Euro in sussidi europei che riceve ogni anno, e che sono circa la metà del totale percepito dagli agricoltori - e, perdipiù, senza quell’afflusso di manodopera agricola non specializzata non britannica che è il motore del settore non solo agricolo, ma anche della raccolta delle colture e della trasformazione delle materie prime alimentari.
I dati, secondo il documento, dipingono quindi un quadro nel quale il Regno Unito non solo non potrebbe permettersi, senza conseguenze, la Brexit stessa, ma nel quale tali conseguenze sarebbero catastrofiche se la politica non avesse ben chiaro il fatto che entro meno di due anni il Paese avrà bisogno di un quadro normativo interamente nuovo, anche per quanto riguarda gli approvvigionamenti esteri. La Sterlina sta subendo la pressione delle altre valute sui mercati valutari, e la crescita sostenuta dell’inflazione sta già portando alcuni osservatori a vedere dietro l’angolo il rischio di una vera e propria stagflazione; la rincorsa verso un nuovo “miglior offerente” per le forniture agroalimentari rischia di abbassare, e di molto, la tutela della salute e la sicurezza alimentare dei cittadini britannici; il venire meno dei sussidi europei porterebbe il deserto nel vasto sottobosco dei piccoli coltivatori, e allargare i confini marittimi nei quali è consentito pescare sarebbe insufficiente a coprire la domanda, oltre ad avere conseguenze facilmente immaginabili sull’ecosistema marittimo dell’area. “Nel giro di 18 mesi”, concludono amaramente Lang, Millstone e Mardsen, “la più complessa opera di riconfigurazione del sistema agroalimentare del Regno Unito di tutti i tempi dovrà essere completa. Gli analisti si rendono ora conto del fatto che si tratta, nella migliore delle ipotesi, di una follia, e nella peggiore, di una ricetta per il caos”.

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