“Il senso più profondo della cucina è quello di diffondere cultura: per questo gli chef devono avere un forte senso di responsabilità”. È il senso, in estrema sintesi del messaggio di Massimo Bottura, lo chef n. 1 al mondo, di ieri a Identità Golose. “La cultura del cibo si basa su 4 punti cardine, che non possiamo mai tralasciare: cultura, conoscenza, consapevolezza e senso di responsabilità”., ha detto lo chef che guida la sua tristellata Osteria Francescana a Modena, ma che sempre più, con i suoi “Refettori” in giro per il mondo, è in prima linea anche nel sociale.
“Vengo da una provincia - ha raccontato lo chef - in cui il sapere viene prima di ogni cosa: il desiderio più grande di mio padre era prendere una laurea, non le 3 stelle Michelin. È la più alta forma di riconoscimento sociale. Ma è pure la molla che mi ha spinto quando, dopo gli apprendistati con Georges Cogny, Alain Ducasse, New York e Ferran Adrià, sono tornato nella mia Modena perché volevo fare qualcosa di diverso”. La cultura è la costante di tutto il suo intervento, e punto cardine di tutto il suo lavoro, perché per Bottura proprio “il cibo è la prima e più chiara espressione di una cultura”, e “il ristorante è sempre più una bottega rinascimentale, un laboratorio di idee in cui si produce cultura”. Per questo, il ristorante non può essere semplicemente “un insieme di cose, ma deve essere fatto dalle persone. Sono i ragazzi che tengono in vita la Francescana. Il lavapiatti Jahid ha lo stesso valore di Davide (Di Fabio, ndr) e Taka (Kondo), i sous chef. E il servizio perfetto regala gioie che non sono nulla se non sono le condividi con gli altri. Sono emozioni che possono durare una vita intera”. In 25 anni la sua Osteria Francescana ha fatto la storia della gastronomia italiana, e lui, Massimo Bottura, ha portato la sua idea di cucina responsabile in tutto il mondo. In primis con il suo progetto dei refettori: “Coi Refettori e Food for Soul - spiega all’auditorium gremito - abbiamo individuato nuove modalità per esprimere un gesto sociale. Abbiamo spostato il fuoco della quotidianità nelle comunità periferiche, tra le famiglie isolate, tra gli individui svantaggiati. E stiamo per aprire anche a Merida, negli Stati Uniti, Firenze, Montreal, Sydney e in Ecuador”. Un grande progetto, che ha dietro un grande scopo: usare la cucina come veicolo per fare del bene agli altri, ai meno fortunati. E anche se con i Refettori, in questi anni, è stato fatto tanto, a Massimo Bottura non basta mai: “si può sempre fare di più”. Ed è forse proprio questa ricerca infinita che lo spinge a tentare ancora, a lanciare sempre nuove sfide. Come quella, annunciata proprio ieri, del Tortellante, nuovo progetto in cui c’è tutto: impegno sociale, cultura, tradizioni, possibilità per il futuro, crescita. “A Modena i tortellini sono un’istituzione; anzi, una religione. Due anni fa Silvia, un’amica d’infanzia, ha acceso una scintilla: pensa se potessimo insegnare ai nostri ragazzi svantaggiati a fare i tortellini, mi ha detto. Potrebbero farlo le rezdore, le nonne, le mamme di questi ragazzi speciali. Le rezdore hanno tenuto insieme le famiglie per una vita intera. Abbiamo capito subito il valore di questo progetto. Abbiamo messo le mani in pasta, raccolto i fondi. All’inizio erano 7/8 ragazzi. Ma le notizie buone corrono molto veloci. Ora sono 35. Ci siamo accorti che il Tortellante poteva allargarsi ben oltre il doposcuola, diventare un ponte tra scuola e vita, generare impiego e lavoro. Oggi riceviamo talmente tante richieste che non riusciamo a soddisfarle: Chicco Cerea, la Tetrapak hanno fatto ordini da quintali”. Un altro successo insomma, da aggiungere alla lunga lista di progetti vincenti dello chef modenese.
Ma se lo sguardo al futuro è l’arma vincente, il legame col passato non va mai trascurato: “in quasi 25 anni di Osteria Francescana - sottolinea Bottura - sono cambiate tante cose ma un elemento è rimasto identico: l’atteggiamento con cui filtriamo il passato, sempre critico e mai nostalgico. Lo facciamo per portare il meglio del passato nel futuro. Ci divertiamo come bambini a comprimere idee in contenuti masticabili. Che generano consapevolezza, visione, intuito, fede. Tutti crocevia che traghettano il razionale ed emozionale”. Tutto, sempre senza perdere di vista la vera protagonista di tutto, la cucina: così, il suo intervento si conclude con la preparazione di un piatto, la Faraona, un’esecuzione magistrale in 3 atti, “un’opera che ricalca il gran finale di un’opera, l’ultimo passaggio dopo adagio, minuetto e allegro. E abbiamo utilizzato tutto dell’animale, ecco cos’è il senso di responsabilità”. E poi porta la sua ormai celebre Patata che voleva diventar tartufo, un piatto nato come omaggio al tartufo, ma diventato simbolo della sua cucina, dove tutto ha un significato sociale e niente è per caso: “tutti noi, con impegno e duro lavoro possiamo diventare meglio del pregiato tartufo. Siamo tutti delle gran patate”.
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