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Il 55% degli italiani mangia gli alimenti dopo la data di scadenza, a patto che sembrino in buono stato. A dirlo è un’analisi Coldiretti su dati Eurobarometro, che sottolineano come ci sia ancora scarsa conoscenza delle informazioni in etichetta

La maggioranza degli italiani, per la precisione il 55%, mangia alimenti scaduti, almeno secondo l’etichetta, a patto che la confezione non sia danneggiata e che il prodotto sembri comunque in buono stato. A dirlo è un’analisi della Coldiretti su dati Eurobarometro di settembre 2015, dai quali emerge che solo il 32% getta via gli alimenti dopo la data di scadenza indicata nella confezione, mentre l’11% decide in base al tipo di alimento, ed il 2% non risponde. In particolare, nel caso degli spaghetti la percentuale degli italiani che li buttano nel bidone scende al 30%, mentre la stragrande maggioranza del 70% li porta in tavola dopo averne verificato le condizioni.

A guidare i comportamenti degli italiani, secondo Coldiretti, è la scarsa conoscenza delle informazioni fornite in etichetta sulla scadenza dei prodotti, ed in particolare sul diverso significato tra “da consumarsi preferibilmente entro il..” e “da consumarsi entro”. In particolare, per quest’ultimo termine ben il 27% ha comportamenti diversi a seconda del tipo di alimento, mentre il 20% ritiene erroneamente che il cibo può essere consumato anche dopo la data indicata ma potrebbe non essere alla massima qualità. Invece la dicitura “da consumarsi entro..” è la data entro cui il prodotto deve essere consumato ed anche il termine oltre il quale un alimento non può più essere posto in commercio. Tale data di consumo non deve essere superata, altrimenti ci si può esporre a rischi importanti per la salute. Si applica ai prodotti preconfezionati, rapidamente deperibili come il latte fresco (7 giorni) e le uova (28 giorni). È indicata dal giorno, il mese ed eventualmente l’anno e vale indicativamente per tutti i prodotti con una durabilità non superiore a 30 giorni.
Discorso diverso merita invece il “termine minimo di conservazione” (tmc) riportato con la dicitura “Da consumarsi preferibilmente entro” che indica la data fino alla quale il prodotto alimentare conserva le sue proprietà organolettiche e gustative, o nutrizionali specifiche in adeguate condizioni di conservazione, senza con questo comportare rischi per la salute in caso di superamento della stessa. Tanto più ci si allontana dalla data di superamento del tmc, sottolinea Coldiretti, tanto più vengono a mancare i requisiti di qualità del prodotto, come il sapore, odore, fragranza, ecc.

La durata viene stabilita autonomamente dagli stessi produttori, in base ad una serie di fattori che vanno dal trattamento tecnologico alla qualità delle materie prime, dal tipo di lavorazione e di conservazione per finire con l’imballaggio. Per questo, non è difficile, durante un controllo commerciale, vedere due prodotti simili, ma di marchio differente con un termine minimo di conservazione diverso. È compito di ogni singola azienda effettuare prove di laboratorio sui propri prodotti, per misurare la crescita microbica e valutare dopo quanti giorni i valori organolettici e nutrizionali cominciano a modificarsi in modo sostanziale. Il risultato è ad esempio che per l’olio d’oliva extra vergine alcune aziende consigliano il consumo entro 12 mesi, altre superano i 18, con il rischio di perdere le caratteristiche nutrizionali e di gusto, come dimostrano gli ultimi studi del dipartimento di Scienze e tecnologie alimentari e microbiologiche dell’università di Milano, che evidenziano come gli effetti del mancato rispetto dei tempi di scadenza variano da prodotto a prodotto. Per lo yogurt, che dura 1 mese, il prolungamento di 10-20 giorni non altera l’alimento, ma riduce il numero dei microrganismi vivi, mentre al contrario per i pomodori pelati quasi tutte le confezioni riportano scadenze di 2 anni anche se la qualità sensoriale è certamente migliore se si consumano prima.

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