Una crescita del 7% di volume nel 2022 (che si prevede verrà mantenuto nel quadriennio 2022-2026, un ulteriore aumento rispetto al +5% registrato fra il 2018 e il 2022), che l’anno scorso ha superato gli 11 miliardi di dollari di valore, sono i numeri significativi che il mercato delle bevande a zero o basso contenuto alcolico sta registrando in 10 mercati chiave (Australia, Brasile, Canada, Francia, Germania, Giappone, Sud Africa, Spagna, Regno Unito e Stati Uniti), secondo l’Iwsr (International Wine & Spirits Research), soprattutto grazie alla spinta di due principali motivazioni: motivi salutistici (assumere meno alcol per limitarne i danni al corpo) o funzionali (assumere meno alcol perché si è stanchi o perché bisogna lavorare o guidare). Questo trend si inserisce nel cambiamento che sta attraversando il life style dove si riscontra più attenzione, più consapevolezza e voglia di stare bene nell’assunzione di cibo e bevande, ma anche in un trend di inclusione che sta interessando trasversalmente il marketing della produzione di beni e servizi. Dalla moda ai cosmetici, dallo sport al cinema, anche il mondo del cibo si è mosso in questa direzione - proponendo per esempio alternative vegetariane e vegane, gluten o dairy free. Quello delle bevande non poteva essere da meno nel proporre soluzioni salutiste e infatti sta riscontrando un successo senza pari. Successo che il vino, ed in particolare il vino italiano, deve ancora abbracciare con convinzione, a detta di Margherita Tovo, Global Brand Manager di Doppio Passo (brand appartenente alla joint venture, nata tra Rotkäppchen-Mumm ed il gruppo Argea, che ha lanciato la prima bollicina alcol free in tempi non sospetti, nel 2018), e Marzia Varvaglione, proprietaria della cantina pugliese Varvaglione e presidente Agivi - Associazione Giovani Imprenditori Vinicoli Italiani dell’Unione Italiana Vini.
Nel segmento delle bevande a basso contenuto alcolico, la birra senz’alcol la fa ovviamente da padrone, essendo disponibile da ormai diversi anni. Secondo i dati più recenti raccolti dalla Commissione Europea, dei 7,7 miliardi di euro registrati dal settore nel 2021, infatti, la birra ne valeva 7 (con un volume pari a 2,5 miliardi di litri), seguita dal vino con 322 milioni di euro (e un volume pari a 42 milioni di litri, circa l’1% del mercato totale di vino), gli spirit drinks con 168 milioni di euro (e un volume di 20,5 milioni di litri) e infine le bevande aromatizzate a base di vino con 16 milioni di euro (e un volume di 2 milioni di litri). Insomma, la fetta di torta che il vino low o non alcol può conquistare nel segmento è importante e al momento è trainata dagli Stati Uniti, poi dalla Germania, seguita dalla Francia e dalla Spagna (tutti paesi europei che producono tradizionalmente vino. Ma ci sono alcuni ostacoli per partecipare al banchetto. Innanzitutto servono investimenti ingenti per comprare la tecnologia necessaria a produrre vini dealcolati, che non tutte le cantine possono permettersi. C’è poi la legislazione, molto rigida per quanto riguarda il settore vino, soprattutto in Italia, che deve trovare ancora modi adatti per regolamentarne la produzione. Infine, essendo il vino nuovo a questo approccio, deve trovare il modo giusto per comunicarsi e questo è possibile solo analizzando meglio il target di consumatori che sono interessanti a comprarlo. È essenzialmente un gioco di equilibrio fra associarsi e il dissociarsi dal vino stesso. Da una parte, infatti, è essenziale non rinnegarne le origini, per poterne giustificare il prezzo (le bevande poco o non alcoliche costano tendenzialmente poco, e ciò non è sostenibile per i costi di produzione che si affrontano per il vino dealcolato, il quale ad oggi viene venduto in una fascia compresa fra i 3 e i 10 euro, a seconda del brand) e per diventare un alternativa sana per chi il vino lo beve ma a volte vuole o deve rinunciare ad ingerire alcol. Dall’altra, è essenziale prenderne le distanze perché (ad oggi) non si può chiamare vino in etichetta e perché un confronto degustativo con un vino tradizionale non è assolutamente praticabile: sono infatti aromaticamente simili ma gustativamente molto diversi.
L’alcol, infatti, contribuisce a dare struttura, ad enfatizzare gli aromi e ad allungare il sorso, tutte cose che vengono a mancare in un bicchiere di vino a basso o nullo tenore alcolico. Per lo stesso motivo non ha senso riportare i vitigni in etichetta: in primo luogo perché vietato, in secondo luogo perché i parametri di riconoscibilità tradizionali che valgono per il vino decadono per i vini sottoposti a dealcolizzazione. C’è, infine, la percezione negativa: un basso grado alcolico trasmette spesso un basso contenuto di valore, come se la produzione di vino dealcolato non fosse sottoposto allo stesso percorso ad ostacoli di un vino tradizionale, con l’aggiunta, oltretutto, di un passaggio ulteriore finale per togliere la parte alcolica. Inoltre i primi tentatavi non erano molto buoni e hanno lasciato un ricordo spiacevole a chi li aveva assaggiati, difficile da superare. La scadenza a tre mesi dall’immissione sui mercati decisamente non aiuta.
I consumatori cui bisogna rapportarsi poi sono diversi: ci sono gli astemi, generalmente non interessati al vino, che possono così essere parte dei brindisi delle feste, ad esempio; ci sono i salutisti, che mischiano le due categorie per ingerire meno alcol o meno calorie, per bere in modo più spensierato; ci sono, infine, gli appassionati di vino che per diversi motivi funzionali non possono ingerire alcol in determinate occasioni (lavoro, guida, stanchezza, gravidanza ...). Tutte queste persone consumano il vino dealcolato principalmente a casa, perché al momento queste bottiglie si trovano soprattutto al supermercato e meno ai ristoranti, ma anche perché, essendo un prodotto nuovo, lo si sperimenta più facilmente fra le mura domestiche. Anche il packaging è un tema: non è affatto detto che la bottiglia di vetro sia la soluzione migliore (le lattine sono un altro contenitore ben quotato) ma al momento aiuta a mantenere il legame con il vino da cui deriva e di conseguenza il prezzo a livelli superiore delle bevande poco o non alcoliche da vino in generale. Infine, i canali: essendo i giovani il target e i consumatori principali, sono chiaramente i social e i media digitali a rivelarsi i più adatti per pubblicizzare e valorizzare un prodotto innovativo, anche tramite un packaging accattivante, che risalti sullo scaffale. Di sicuro una carta importante resta la scelta del linguaggio, che deve rimanere coerente con lo stile di comunicazione del brand di origine.
Insomma, trovare un modo per partecipare al boom del comparto del vino dealcolato non è facile (per questione di costi, legislazione, abitudini e target di consumatori), ma sarà essenziale mantenerlo legato al vino tradizionale: almeno finché non troverà una sua identità e maturità.
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