Dalla campagna alle città e ora dalle città alla campagna, se “parlare di un ripopolamento della campagna italiana è forse eccessivo, sicuramente l’emergenza Covid che stiamo vivendo, ha costretto tutti ad un ripensamento del rapporto con il territorio, e ad una rivalutazione della campagna non solo come luogo di abitazione, ma anche come luogo di produzione. Di abitazione perché, effettivamente, abitare in campagna è più sicuro, ma l’emergenza sanitaria ci ha costretto anche a ripensare l’ordine di tutte le nostre vere emergenze, le prime delle quali sono quelle alimentari che ci riportano direttamente alla campagna”. È l’analisi, a WineNews, di Massimo Montanari, tra i massimi storici dell’alimentazione al mondo, professore di Storia medievale all’Università di Bologna, secondo il quale, tra gli effetti del Covid, c'è “l’accorgersi che l’unica cosa di cui non possiamo fare a meno è mangiare. E, quindi, tutto ciò che nei momenti di normalità può sembrare ovvio, non lo è più, come l’assalto ingiustificato ai supermercati, che però è un’azione culturale molto significativa che vuol dire approvigionarsi di ciò di cui abbiamo bisogno, con le farine che scompaiono e il pane fatto in casa, che, da un lato, è frutto di una costrizione, dall’altro, è quella stessa costrizione che ci ha fatto riscoprire cosa importa veramente nella vita. Un aspetto, nell’emergenza che ci è capitata addosso nel 2020, che paradossalmente ridà all’agricoltura e alla produzione delle campagne la centralità che hanno”.
“Io penso che il dualismo città/campagna, che è sempre stato il punto debole della cultura italiana che da molti secoli, da un’ottica tipicamente cittadina, ha guardato alla campagna con grande sufficienza come luogo di arretratezza ed ignoranza, tanto che la lingua italiana è forse la più pesante nel modo in cui utilizza il termine contadino, villano, rustico con accezioni dispregiative - sottolinea lo storico italiano - ha iniziato a cambiare e rovesciarsi già da tempo. Oggi essere contadini non è più una vergogna e, soprattutto nelle generazioni più giovani, fare il contadino è diventato quasi uno status symbol al passo con i tempi. E se è ovvio che tutto questo è equivoco, indica comunque una tendenza in crescita al guardare in modo diverso al mondo del lavoro agricolo e delle campagne”. Tutto questo, secondo il professore, “ha innescato processi virtuosi di collaborazione tra città e campagna: cittadini che costituiscono gruppi di acquisto in campagna, contadini che si rivolgono ai cittadini coinvolgendoli nel proprio lavoro, con trovate più o meno pubblicitarie come l’“adozione” di una coltivazione, ma che sono cose molto più serie di quello che sembrano, perché indicano la nascita di un rapporto nuovo tra città e campagna decisamente positivo”.
Tra le voci più importanti ed autorevoli della cultura italiana, Montanari ha una speranza personale: “che la crescita di consapevolezza di tutto questo rimarrà”. Anche, e soprattutto, il fatto di riconoscere il giusto valore e il giusto prezzo ai prodotti della terra, come prima facevamo disposti a spendere di più per uno smartphone o un abito alla moda. “Non tutti hanno le risorse sufficienti per cercare cibo e vino migliore, ma sarebbe la cosa più intelligente da fare, perché la quantità di risorse finanziarie che noi oggi impieghiamo per tutta una serie di cose che sono importanti ma non essenziali nella vita, è troppo alta rispetto a quella che dedichiamo al benessere del nostro corpo. Stavamo già andando in questa direzione, se penso all’azione di Slow Food, e non solo, nel farci capire che il lavoro dei contadini che producono cose buone si paga e che non è identico a quello dell’industria alimentare. Il cibo è un momento cruciale di questa crescita culturale: nel momento in cui capiamo che è uno spazio di libertà totale a cui abbiamo rinunciato, perché siamo noi a scegliere ciò che mangiamo o beviamo, di pagare di più per rispetto a chi produce e che anche noi possiamo fare il pane in casa, scatta qualcosa in noi che ci spinge a riappropriarsi della nostra autonomia, che va ben oltre quella alimentare. Perché il cibo è la vita, e il rapporto che abbiamo con il cibo è quello che abbiamo con la nostra vita”.
Non si tratta semplicemente di un tema economico, è il pensiero che condividiamo con lo studioso, “ma culturale e di rispetto dell’altro e del lavoro di chi produce quello che mangiamo. Faccio lo storico del futuro: mi auguro che stiamo uscendo da una fase lunga della nostra storia dove abbassare il costo degli alimenti è stato l’obbiettivo primario. Mi scandalizzo molto quando guarda la pubblicità e vedo la percentuale di quelle che insistono sullo sconto, sull’affare. Sono il prezzo di una politica e di una cultura che sono le peggio che ci trasciniamo dietro dalla rivoluzione industriale. È sulla qualità che dovremo fare pubblicità. E sogno il giorno in cui qualcuno mi dirà compra questo che costa di più. Difficile, ma prima o poi può darsi che succederà, perché il tema della salute si collega a quello della qualità. E sarà una svolta che potrà non riguardare tutti, perché c’è chi ha maggiori risorse e chi ne ha meno. C’è moltissimo da lavorare, da parte di tutti, da noi studiosi a chi fa comunicazione, ma quando ci arriveranno anche gli industriali del cibo - conclude Montanari - saremo ad un passo dall’arrivo”.
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