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Il Messaggero

La cantina migliore è in fondo al mare … Nel 2010 fu ritrovato un relitto con 145 bottiglie di champagne nella stiva. La qualità era altissima: da allora la conservazione subacquea dei vini è diventata l'ultima frontiera… Sarà tra i più esclusivi brindisi di fine anno, però potrebbero non bastare 20 mila euro per accaparrarsi una delle 11 bottiglie di champagne invecchiate nella cambusa del veliero Foglo, inabissatosi nel mar Baltico nel 1852. Quando 170 anni dopo furono recuperate, assieme ad altre 134 bottiglie, le etichette non c’erano più, ma le analisi le hanno attribuite alle famose maison Veuve Clioquot-Ponsardin. Heidsiock e Juglar. Battute in una prima asta a un valore complessivo di 156 mila dollari pian piano il loro prezzo e cresciuto (delle altre non si hanno notizia, sicuramente custodite in caveau segreti). Investimento da collezionisti. ma anche esperienza sensoriale unica per chi l’ha bevuto. “Non ho mai assaggiato un vino simile in vita mia. L’aroma mi è rimasto in bocca per tre o quattro ore, sentenziò Philippe Jeandet, docente alla facoltà di enologia di Reims. citato dal Guardian. Il merito dello straordinario gusto sarebbe proprio dell’invecchiamento nelle profondità marine, tant’è che la Veuve Clicquot. brand enologico del gruppo del lusso LVMI del miliardario Bernard Arnault, sta tentando di ricreare le stesse condizioni immergendo decine di bottiglie nel medesimo punto dell’arcipelago finlandese delle Aland, dove alcune rimarranno per 40 anni. “Il Baltico - spiega l’amministratore delegato Jean-Mare Gallot - è ambiente ottimale per l’invecchiamento, grazie alla sua bassa salinità (20 volte inferiore a quella dell’Oceano Atlantico) e alla temperatura costante di 4°Cm. Non osiamo immaginare il prezzo. Volendo togliersi durante le feste lo sfizio delle bollicine subacquee, con circa 50 euro, si può provare Abissi, uno spumante metodo classico che riposa al largo di Portofino. Gli “Under Water Wine” sembrano non essere una moda passeggera. “Il mare come cantina l’oscurità degli abissi a garantire un affinamento a temperatura costante, le onde a regalare un remuage naturale alle bottiglie” sintetizza Alessandro Regoli direttore di WineNews. Il primo a sperimentare l’affinamento negli abissi è stato l’enologo spagnolo Raul Perex. In Italia sono già una ventina. I più noti: Bisson in Liguria, Arrighi all’Isola d’Elba e la Tenuta del Paguro nell’adriatico. Dall’estate scorsa anche Benanti, cantina d’eccellenza sull’Etna, che ha depositato duemila bottiglie nelle profondità dell'isola dei Ciclopi (la stessa dove avrebbe vissuto Polifemo). Forte è il richiamo al mondo antico: i Greci immergevano le uve in mare per farle appassire più rapidamente mantenendo aromi tipici: i Romani lavavano gli acini essiccati al sole con l’acqua di mare per prevenire l’acetificazione. Emmanuel Poirmeur, viticultore sulla costa atlantica francese, nell’Atlante dei vini insoliti racconta che “gli antichi viticoltori tenevano conto del tempo e della pressione atmosferica, che aumenta di circa dieci volte con la marea. Io uso l’oceano come risorsa energetica, che da contemporaneamente la temperatura, l’inerzia termica. L’agitazione e la contropressione necessarie per elaborare uno spumante, un qualcosa che sarebbe impossibile ottenere sulla terraferma”. Quindi anche in sintonia con la sostenibilità ambientale. Secondo “Life Cycle Engineering”, per ogni 1000 bottiglie invecchiate nei fondali a 50 metri sotto il livello del mare, si risparmierebbero circa 68 Kg di CO2. Adesso l’impennata dei prezzi dello champagne trovato nel relitto tra Svezia e Finlandia ha risvegliato grande curiosità. Ma quali sensazioni si provano a sorseggiare queste bollicine? Il serissimo rapporto stilato dagli esperti ci fa un po’ sorridere, sembrando scimmiottare Antonio Albanese in versione sommelier, con l’uso di termini come “note animali” o “capelli bagnati”. Salvo, dopo aver lasciato il vino riposare e ossigenarsi nel bicchiere, individuare aromi più piacevoli, “speziati”, “affumicati” e “coriacei”. Parole pronunciate avendo potuto mangiarne, ha confessato al Guardian Philippe Jeandet, “appena una goccia spruzzata da una microsiringa”.

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