“A prova di palato posso assolutamente smentire il fatto che ci sia qualche somiglianza tra il Parmigiano Reggiano dei nonni, che consumo con piacere dagli Anni Settanta del Novecento, e il Parmesan americano”. A rispondere alla domanda più dibattuta in questi giorni - nata da un’intervista al professor Alberto Grandi (docente di Storia dell’Alimentazione) sul “Financial Times", secondo cui l’originale Parmigiano Reggiano, vanto del made in Italy, sarebbe quello del Wisconsin - è Gabriele Arlotti, uno dei due soli italiani invitato come giurato al “World Championship Cheese Contest”, in Wisconsin, insieme ad altri 60 colleghi di tutto il mondo, proprio nella patria dell’Italian sounding dei formaggi.
Si tratta del più antico concorso internazionale di formaggi, organizzato dalla potente organizzazione dei latticini americani, la Wisconsin Cheese Makers Association. “Il Parmigiano Reggiano è una Dop tutelata dall’Unione Europea oltre che un marchio di certificazione tutelato dal Consorzio Parmigiano Reggiano negli Usa - spiega Arlotti, giornalista con una laurea in Scienze delle Produzioni animali - e questo è un dato di fatto inoppugnabile”. E allora perché tanto clamore? “L’articolo del professor Alberto Grandi, riportato dal “Financial Times”, ha avuto molta eco dopo che un’associazione nazionale lo ha rilanciato e controbattuto, quando forse si poteva semplicemente ignorare. Da un lato, il professor Grandi afferma alcune verità (come il fatto che la cucina italiana è in evoluzione), ma dall’altro commette, forse a scopo propagandistico, alcuni errori grossolani, come sostenere il fatto che il Parmigiano Reggiano dei nostri nonni sia più simile all’imitazione americana che non al Parmigiano Reggiano di oggi. Ma non è così e non lo è mai stato”.
Ma lei che è fondatore della Nazionale del Parmigiano Reggiano, il cosiddetto Parmesan del Wisconsin lo ha mai assaggiato? “Sì, a Madison, dove ho il piacere di essere parte di una giuria di esperti ogni due anni, apprendendo così da vicino e di persona le tendenze e i gusti americani. Eppure in questo continente il Parmigiano Reggiano ha un mercato ben definito e in espansione, con oltre 8.000 tonnellate di prodotto venduto. In America, sin dall’Ottocento, si ritiene che attribuire il nome di una località ad un cibo (per esempio il formaggio Filadelfia, che però non è mai nato in Pennsylvania) evochi chissà che qualità. In Europa questo fenomeno avvenne, per meri motivi commerciali, 9 secoli fa (ecco perché i genovesi chiamarono Parmigiano quello che qui era conosciuto come formadio o formaticum).
Ebbene, il formaggio che gli americani chiamano commercialmente Parmesan raggruppa oggi una serie di caci estremamente diversi tra loro. Quelli che ho avuto modo di assaggiare, ad esempio, non hanno la caratteristica grana derivata dai cristalli di tirosina (che ha il Parmigiano Reggiano attuale, ma anche quello passato), è pastoso, particolarmente grasso (in linea con i loro gusti alimentari), di tonalità molto variabili, così come pezzature e dimensione e prevede l’aggiunta di additivi: nulla a che fare col formaggio dei nostri nonni. È soprattutto privo delle caratteristiche sensoriali che conosciamo bene, dalle note lattiche a quelle fruttate e di noce secca, marcate all’aumentare della stagionatura che ha, invece, il Parmigiano Reggiano. Ma c’è di più. Se furono anche i casari locali nell’Ottocento e Novecento ad esportare, con la loro migrazione, tecniche produttive per produrre similari in Argentina (come il Reggianito con i casari reggiani), quello che non potrà mai essere esportato è il fatto che il genius loci emiliano-mantovano (aspetti microbiologici derivati dall’ambiente naturale, come lattobacilli, termofili e mesofili, ma anche enzimi tipici dell’ambiente in cui produciamo latte e formaggio) è caratteristico solo di qui ed influisce enormemente sul prodotto. Il Consorzio Parmigiano Reggiano li ha chiamati “gli Amigos” in una recente campagna pubblicitaria del regista Paolo Genovese, i magici batteri lattici”.
Cosa si sente di dire ai suoi amici americani a riguardo? “Sicuramente dovrebbero essere rispettosi dei nomi originali dei prodotti, riconoscendo a Cesare (noi) quel che è di Cesare (il nome della nostra Dop). Detto questo, è un bene che, nel Wisconsin, ci sia una significativa produzione casearia. Hanno animali meravigliosi, di razza Frisona e Bruna americana, di dimensioni imponenti, e un’incredibile organizzazione produttiva, ed è grazie a tutto ciò che è possibile sfamare più di un continente che, oggettivamente, faremmo fatica da soli a sostenere: non basterebbe l’Italia intera a produrre Parmigiano Reggiano per l’America”.
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