La legge sulla lotta al Caporalato, introdotta nel 2016 dal Governo Renzi, non basta. C’è stato bisogno della morte di 16 braccianti in pochi giorni, tutti stranieri, di ritorno dai campi di pomodori pugliesi, per aprire il fronte di una riflessione più ampia sullo sfruttamento del lavoro agricolo, una pratica tanto odiosa quanto difficile da estirpare, specie nel Sud del Paese. Le pagine dei quotidiani, ogni estate, si riempiono così di storie tragiche, che raccontano di paghe da fame, indegne della settima economia mondiale, infinite ore passate sotto al sole, condizioni ai limiti dell’umanità. Quasi nessuno, però, si è chiesto cosa ci sia dietro, almeno finora. Perché al di là dei numeri, che parlano di 100.000 braccianti agricoli che subiscono forme di ricatto lavorativo e vivono in condizioni disumane, lavorano dalle 8 alle 12 ore al giorno, per una paga media di 3 euro l’ora (dati del rapporto “Agromafie e caporalato” dell’Osservatorio Placido Rizzotto), c’è un mercato, in cui il pomodoro, come altri prodotti agricoli, è diventato ormai una commodity, incapace di spuntare prezzi remunerativi per gli agricoltori, e schiacciato dalle aste al ribasso di alcune sigle della Gdo che, dall’altra parte, tengono per il collo i trasformatori, ossia l’industria del pomodoro.
A raccontare il meccanismo perverso che porta sugli scaffali la passata di pomodoro a prezzi stracciati, è stato il settimanale “Internazionale”, con il reportage “I discount mettono all’asta l’agricoltura italiana”, che riporta l’esempio di Eurospin, capace di aggiudicarsi una partita di 20 milioni di bottiglie di passata da 700 grammi a 31,5 centesimi a bottiglia. Come? Con una prima asta, al ribasso, cui ne è seguita una seconda, prendendo come base il prezzo minore della prima. Il risultato? Passata di pomodoro a 39 centesimi di euro, industria che lavora a rimessa e agricoltura che stenta a sopravvivere e si rifà sul costo del lavoro. Un cortocircuito deflagrato con tutti i suoi limiti proprio nelle storie dei braccianti, ma a cui va posto rimedio, oltre che combattendo il caporalato con tutte le armi a disposizione, intervenendo sui diversi passaggi della filiera. In questo senso, è lodevole l’iniziativa di Slow Food, da sempre in prima linea nella lotta allo sfruttamento ed al caporalato, che ha chiesto al Governo la dichiarazione in etichetta del prezzo all’origine, così da mettere il consumatore nelle condizioni di decidere se premiare la convenienza o le filiere virtuose. Provando così a scalfire il potere della distribuzione, perché è dal vertice della piramide che nasce tutto, ed i lavoratori, costretti a guadagnare la metà di quanto previsto dal contratto nazionale, in barba a qualsiasi legge, non sono altro che l’ultimo anello di una catena insostenibile. Basterà? Si vedrà, per ora il Ministro delle Politiche Agricole Gian Marco Centinaio mette l’accento sulla responsabilità delle aziende e sui controlli, puntando su forze di polizia ed ispettori. Proprio il Ministero, però, giusto un anno fa, aveva firmato un patto di impegno con Federdistribuzione e Anc-Conad per favorire pratiche commerciali leali e contro il caporalato, mettendo fine alle aste al doppio ribasso. Forse è il caso di ripartire da lì, allargando la base delle catene aderenti, oppure, seguire l’esempio della Francia, che nel lontano 2005 ha deciso di inserire per legge un numero tale di limiti da rendere le aste al doppio ribasso addirittura svantaggiose per la Gdo.
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