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La Verità

Al Vinitaly dei record sfila il 7% del Pil ma l’export è ancora un calice amaro … Apre la fiera più grande al mondo: 4.600 espositori e tutto l’arco parlamentare meno Di Maio agli stand. Tiene il mercato interno... I voli Roma-Verona sono stracolmi come i capannoni della fiera. Il Vinitaly che si apre stamani, inaugurato dal ministro dell’Agricoltura e del Turismo, Gian Marco Centinaio, ha strappato a Bruno Vespa, peraltro qui in veste di cantiniere, il ruolo di terza Camera. Ci sono le elezioni europee e conviene farsi vedere con un bicchiere in mano. Perché il vino fa immagine. Va un po’ meno bene sul fronte degli affari, ma ci arriviamo. A Verona si passa dai movimenti per la vita a quelli per la vite. E la faccenda è un po’ più bipartisan. Arriveranno Matteo Salvini, che peraltro è uno che se ne intende, Nicola Zingaretti che da governatore del Lazio viene a vendere il vino de li castelli e però cerca di raccontare che ora il Pd è un buon rosso, il fu ministro agricolo, Maurizio Martina, non si sa se ci sarà il rosato Carlo Calenda, di sicuro Matteo Renzi, che quando era premier qui annunciò uno storico accordo per il mercato cinese. Ai cinesi vendiamo, buoni ultimi tra i maggiori Paesi produttori, due bottiglie in croce: la sua è rimasta la via della sete, si spera ora in quella della Seta. E poi ci sono i politici vignaioli come Massimo D’Alema. L’incognita è Luigi Di Maio: verrà? Il sindaco di Verona, Federico Sboarina, gli ha dato un metaforico daspo urbano dopo le parole non proprio gentili del vicepremier grillino rivolte alla città per il convegno delle famiglie. Metà happening economico, metà congresso, il Vinitaly celebra i suoi fasti e Giovanni Mantovani - direttore di Veronafiere - si frega le mani: edizione record. Sfiora 100.000 metri quadrati, 4.600 espositori da 35 Paesi è ormai l’appuntamento più importante al mondo, per Bacco! Si aggiungono il Sol, salone degli oli extravergine, quello dei vini biologici che sono con gli spumanti i vini in maggior crescita, quello dei prodotti all’italiana e quello degli accessori. Si va avanti fino al io aprile con almeno 500 eventi che hanno avuto l’anteprima di lusso ieri sera a Opera Wine, dove “sfilano” i cento produttori che contano davvero in Italia: da Antinori a Caprai, da Frescobaldi ai barolisti, da Ca’ del Bosco e Bellavista a Ferrari. In città c’è il fuori salone con enoteche, ristoranti, spazi privati che con mille eventi affermano lo stile italiano del produrre e consumare vino. Tutto bene dunque? Non proprio: se tiene il mercato interno scricchiola l’export. Siamo primi per quantità prodotta (46 milioni di ettolitri) e per volume venduto, ma non per fatturato. La Francia ci batte in Europa e a Oriente e nel nuovo mondo la concorrenza dei Paesi emergenti (Cile e Australia oltreché della Spagna) è forte, gli americani hanno cominciato a essere autarchici: bevono molti vini californiani, peraltro assi migliorati in qualità. Il ministro annuncia più sostegno all’export (a cominciare dai pagamenti dell’Agea) ed è il caso di fare in fretta. Per l’Italia il vino significa 15 miliardi di fatturato, oltre 5 dall’export, 5o mila imprese coinvolte, 1,3 milioni di addetti diretti; con indotto ed enoturismo (Gian Marco Centinaio è riuscito a varare un decreto che dribbla le pastoie fiscal burocratiche e consente alle cantine di fare davvero accoglienza) i numeri diventano giganteschi: al Vinitaly c’è il 7% del Pil. Secondo lo studio consueto di Mediobanca (ma considera solo chi fa più di 25 milioni di fatturato) il settore vale un po’ meno: il miliardi. Le cantine hanno incrementato il volume d’affari del 7,7% ma più per la domanda interna (+9,9%) che non per quella estera (5,5%); finanziariamente il vino è ancora un nano e le imprese con fatturati importanti si contano sulle dita di due mani (il Giv è ancora il più forte con 663 milioni). La classifica della redditività dice: Antinori, Santa Margherita, Frescobaldi e Masi che di fatto è l’unica quotata in Borsa. L’incremento del mercato interno ha beneficiato i conti della cooperazione che è ancora l’aggregato più forte: vale 5,2 miliardi di fatturato di cui 2 dall’export, con un incremento del 9,2%, 150.000 addetti tra soci e lavoratori. Detto questo, resta da misurare redditività e tenuta di vini che hanno fatto il boom come il Prosecco, arrivato a 550 milioni di bottiglie prodotte (330 milioni spedite oltreconfine), su cui pesa l’incognita Brexit (gli inglesi sono i più forti consumatori), resta da capire perché i francesi sui mercati asiatici ci battono regolarmente, perché l’Europa beve meno e se il mercato Usa si sviluppa ancora visto che per noi quello è l’Eldorado, con gli americani che stappano di preferenza Brunello di Montalcino (è il più amato col 33% dei consensi come riferisce Winenews), Barolo e i vini siciliani (soprattutto etnei) tra i rossi e i grandi friulani tra i bianchi. Tra le denominazioni in crescita c’è il Verdicchio delle Marche, tiene il Lambrusco, in ripresa forte il Chianti Classico. Chi approda a Verona, se vuol capire il valore del vino, ha mille proposte dalle cantine; fra quelle da non perdere la Masi experience, vino & arte di Marco Caprai, l’universo Bellavista del gruppo Moretti, la sostenibilità di Venica, i paesaggi siciliani di Cusumano, la lirica che sposa i grandi vini delle Marche, celebrando alcuni anniversari storici: i cento anni di Nino Franco la cantina ambasciatrice del Conegliano Valdobbiadene, le rarità di Ricasoli, la storia del Chianti. Bettino Ricasoli fu il secondo presidente del Consiglio dell’Italia unita. Riformò il Paese e il Chianti, e infatti lo chiamavano il barone di ferro. Chissà se anche stavolta con i politici del Vinitaly stiamo in una botte di ferro...

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