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CONSUMI ED ECONOMIA

L’alimentare italiano regge l’urto del Covid-19. Il peso di sostenibilità ed etichetta

Il 28% delle aziende vede la sostenibilità come strategia di lungo periodo. L’e-commerce cresce del 55% ed il “100% italiano” vale un +8,8% di vendite
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Come cambia l’alimentare italiano

Il settore agroalimentare italiano prova a resistere all’impatto del Covid-19, soprattutto grazie all’export. Addirittura, gli ultimi studi evidenziano che l’agroalimentare made in Italy nel mondo è in crescita e vale 41 miliardi di euro; mentre secondo una ricerca, nel 2050, quando la popolazione mondiale passerà dagli attuali 7 miliardi agli 8-10 miliardi, 1 consumatore su 10 nel mondo mangerà cibo italiano. Dati che sicuramente fanno ben sperare in merito alle potenzialità del settore negli anni a venire. Emerge dal Seminario “Food, Wine & Co. - Verso la Sostenibilità” ideato e organizzato dalla professoressa Simonetta Pattuglia e dal Master in Economia e Gestione della Comunicazione e dei Media di Roma Tor Vergata, con Fiera Roma e Coldiretti.
Il tema cardine è la sostenibilità. Un concetto che sta entrando con sempre maggiore forza nelle logiche di comunicazione e produzione delle aziende, e sta divenendo un determinante fattore di scelta anche per i consumatori, trasformandosi in un vero e proprio trend. Una recente ricerca ha dimostrato che l’attenzione dei consumatori italiani si sta muovendo verso tre principali direttrici: la riduzione degli sprechi alimentari (ogni anno gli italiani gettano nel cestino 36 kg di prodotti alimentari), la riduzione dell’impatto del packaging sull’ambiente, e infine una maggiore attenzione verso qualità e provenienza dei prodotti, oltre all’impatto sociale e ambientale del ciclo di produzione degli stessi. Un valore aggiunto, quello dell’essere un prodotto sostenibile che, insieme all’essere ecologico, pesa, per il 28% nella scelta d’acquisto.
Protagonista del seminario è stato, per forza di cose, anche il forte impatto che ha avuto su tutto il settore il Covid-19, evento che ha finito per condizionare i comportamenti di consumatori e aziende. Il Coronavirus ha reso gli italiani più coscienziosi in merito alla scelta dei prodotti alimentari. Questo perché la pandemia e il lockdown hanno rallentato il mondo, privandolo della frenesia quotidiana, e messo le persone nelle condizioni di valutare con maggiore calma ed attenzione le possibilità di acquisto. Inoltre, gli italiani hanno riscoperto l’importanza del pranzo, troppo spesso fagocitato dai ritmi giornalieri, al quale hanno iniziato a prestare un’attenzione diversa anche per quanto riguarda le materie prime da mettere nel piatto.
Un’attenzione che si concentra soprattutto sul biglietto da visita dei prodotti, ovvero l’etichetta. La lettura di questa, prima dell’acquisto, è divenuta una pratica consolidata. Ma quali sono gli elementi che pesano nella scelta di un prodotto? Il made in Italy è un fattore in grado di spostare le vendite: la dicitura “100% italiano” comporta una variazione del +8,8% delle vendite, seguita dalla certificazione Doc, con un +7.2%, quindi da Docg, con un +6,8%. Ma basta pensare che la sola presenza del tricolore, pesa per un +3%.
Se quello della sostenibilità per il consumatore è un elemento di scelta, per le Pmi si sta lentamente trasformando dall’essere una pratica virtuosa al divenire una pratica necessaria, nel medio-lungo termine, per garantirsi la sopravvivenza e la competitività nel settore. Una lenta transizione che consta di quattro fasi distinte, come evidenzia uno studio6 relativo al “Green Marketing” delle Pmi italiane.
La ricerca ha analizzato un campione di 46 aziende italiane, 39 aderenti alla Global Reporting Initiative e 7 alla UNIC, utilizzando un questionario per indagare la cosiddetta sostenibilità olistica: ovvero la quota del fatturato che ognuna di esse investe in sostenibilità e le loro azioni di green marketing. L’istantanea che ne deriva, vede il 35% del campione essere “Green Dogs”, ovvero realtà che vivono la fase della “negazione”, per le quali il concetto di sostenibilità non esiste. Il 7% vivono, invece, una fase di “tolleranza”: sono i “Green Question Mark”, aziende che investono in sostenibilità perché obbligate, ma non la vedono come opportunità di crescita. Sono, invece, “Green Cows” il 30% delle aziende analizzate: realtà che vivono la fase della “comunicazione”, ovvero che si stanno attivando per comunicare il proprio impegno in tal senso, cercando una maggiore visibilità all’interno dello scenario competitivo ma che, fattivamente, effettuano scarsi investimenti in sostenibilità. Le Pmi “Green Stars” sono invece il 28%: vivono la fase della “sostenibilità vissuta”, nella quale questa è considerata una strategia di lungo periodo, che conduce ad un vantaggio competitivo. Si tratta delle realtà già proiettate nel futuro.
Se, come abbiamo visto, il settore sta riuscendo ad assorbire l’onda d’urto del Covid e le previsioni sembrano essere positive, un elemento ulteriore da non sottovalutare assolutamente è quello dei canali di vendita alternativi. L’e-commerce è una soluzione che passerà dall’essere una contromisura necessaria imposta dal Covid-19, ad uno strumento efficace e redditizio nel futuro. Nel 2020, la forzosa conversione alle vendite online, sebbene abbia garantito alle aziende volumi minori ha, al contempo, consentito a queste la continuità aziendale in un momento critico. Nello specifico, in Italia l’acquisto di generi alimentari online nel 2020 ha raggiunto i 2,5 miliardi di euro di valore (+55%). Il food delivery vale 706 milioni di euro (+19%), mentre l’enogastronomia 589 milioni (+63%).

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