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PAOLO MARCHI

L’alta cucina italiana, i suoi limiti, le sue potenzialità: l’analisi di Paolo Marchi

L’incapacità di una comunicazione di lungo respiro, la dipendenza dalle stelle, i fatturati il boom dei ristoranti tricolore all’estero
CUCINA ITALIANA, IDENTITA GOLOSE, PAOLO MARCHI, Non Solo Vino
L’alta cucina italiana secondo l'ideatore di “Identità Golose” Paolo Marchi

Scindere due mondi tanto intrecciati, per non dire interdipendenti, come quello della gastronomia e quello del vino, è un esercizio praticamente impossibile, oltre che inutile. Specie perché, come scriviamo da anni, la cucina italiana ha spesso e volentieri spalancato le porte al vino, basti pensare a quanto accaduto negli Usa, ma anche in Gran Bretagna e, in misura ancora embrionale, a quello che potrebbe succedere nei prossimi anni in Cina. E allora diventa importante, oltre che interessante, immergersi nello stato dell’arte della cucina italiana, nelle sue tendenze, nella sua incapacità di emanciparsi dal giudizio della Michelin, nelle sue mille declinazioni, spesso da rivedere, in giro per il mondo. Temi analizzati da Paolo Marchi, ideatore e dominus di “Identità Golose”, il Congresso italiano di cucina d’autore (nei giorni scorsi al Congresso Assoenologi a Trieste, qui a tu per tu con WineNews), che prende le mosse dall’Anno del Cibo Italiano, che al giro di boa “sembra una scelta abbandonata a se stessa da un Governo in scadenza, e incapace di creare interesse nel nuovo Governo. Bisogna stare attenti, quando pensiamo a questo genere di iniziative, a quelle che, in qualsiasi lingua del mondo, sono due delle parole più pericolose da pronunciare: “buon lavoro”. C’è ancora tanta strada da fare - spiega Marchi - per la nostra ristorazione, che deve far crescere il valore della ricevuta media, perché la qualità va fatta pagare, ma noi non abbiamo ancora la coscienza del fatto che l’eccellenza ha un prezzo”.
E poi, c’è il problema atavico di un’Italia che tra i fornelli, così come succede spesso tra i filari, non solo fa fatica a fare squadra, ma persino a stringersi intorno ai successi altrui, fondamentali per l’intero settore. “Persone come Bottura sono un valore assoluto per l’Italia - riprende Paolo Marchi - come Vettel della Ferrari, solo che quando vince il ferrrarista siamo tutti contenti, quando lo chef modenese conquista il primo posto nella 50 Best Restaurants, non riusciamo a farne tesoro. Avere grandi esempi dà forza a tutto il Paese, ma in cucina non riusciamo ancora a promuoverci in questo senso”. Una dinamica che si riflette anche nell’incapacità di un’azione promozionale di lungo respiro, come succede invece in Paesi dal patrimonio gastronomico neanche paragonabile a quello dell’Italia. “Pensiamo a “Restaurant Australia”: nel 2013 il Paese - racconta l’ideatore di “Identità Golose” - si chiese quale fosse la conoscenza della ristorazione australiana all’estero. Ne emerse che chi non ci era mai stato non aveva idea di come si mangiasse nella terra dei canguri. Invitarono così, a novembre 2014, 80 opinion leader da 16 Paesi, cui servirono una cena incredibile firmata da tre chef stellati, che ebbe grande eco: noi, per metterci d’accordo su quali chef coinvolgere ci saremmo scannati, e infatti ogni iniziativa diventa un carrozzone. La Slovenia - riprende Marchi - sta cercando di diventare una meta gastronomica, lanciando un piano concretizzatosi in una conferenza a gennaio 2018 in cui si è proposta come Regione gastronomica europea del 2019-2020, ma il progetto è addirittura del 2006, ha superato i Governi ed il tempo. L’Anno della Cucina Italiana nel mondo e l’Anno del Cibo, invece, sono diventati dei veri e propri minestroni, fatti di quantità più che di qualità. Nel mondo non funziona così, i diversi Paesi hanno un sistema dietro che rende desiderabile la loro cucina. Non credo sia un’occasione persa, però ci vuole qualità nella ristorazione e una nostra definizione di qualità”.
E qui si apre un altro fronte, caldo ma non caldissimo, difficilmente scardinabile: il sistema delle stelle Michelin, “che ormai abbiamo fatto nostro, demandando alla Francia la classificazione della nostra ristorazione. Anche in questo caso, manca un’idea chiara. I nostri cuochi, quando vanno all’estero, sono quasi sempre spaesati, mentre gli altri hanno la forza di muovere un vero e proprio circo mediatico. In cui l’Italia è sotto rappresentata, come in quella che è l’ultima frontiera della comunicazione, “Chef’s Table”, il format di Netflix, un racconto che prescinde dalle stelle, e dai voti visibile da milioni di persone in tutto il mondo. Dobbiamo riflettere sul fatto che ovunque nel mondo si trova il mangiare italiano - ricorda Marchi - e noi critici dovremmo andare a fare questo: dare i giudizi ai ristoranti italiani nel mondo, non possiamo giudicare solo gli stellati, un sistema che comunque ci premia, con un incremento degli stellati eccezionale (+60% in dieci anni). Marchesi per primo denunciò il fatto di essere succubi delle stelle francesi, oggi certo nessuno ci sputa, porta benefici a tutti, ma i fatturati, se gli stellati vivessero solo di quello, sarebbero troppo bassi. Il fatturato complessivo degli stellati è di appena 259 milioni di euro, l’1% del giro d’affari complessivo della ristorazione, che vanta un valore aggiunto di 41 miliardi di euro sulla filiera dell’agroalimentare”.
Per non parlare del valore della ristorazione italiana nel mondo, del tutto intrinseco, ma che ci offre un quadro in cui in Cina oggi ci sono oltre un milione di ristoranti italiani, in Usa 621.000, in India 400.000, in Giappone 185.000, in Francia 169.000, in Brasile 102.000 e via dicendo, ma quanti fanno realmente cucina italiana? Si chiede Paolo Marchi. Proprio guardando al mondo, c’è un problema non di poco conto “con i nostri giovani chef che, come ha ricordato Niko Romito, dovrebbero prima di tutto intraprendere un grand tour delle cucine del Belpaese, prima di andare in Sud America o in Asia ed in Europa a scoprire le grandi cucine del mondo. Stiamo perdendo contatto e conoscenza con la nostra cucina, e nel frattempo i super stellati in Europa sono pieni dei nostri cuochi, che una volta visto come si lavora fuori dall’Italia non hanno alcuna intenzione di tornare. Un’altra dinamica diventata centrale nella ristorazione - conclude Marchi - è quella della sostenibilità, lodevole, ma che sta diventando una moda, un conformismo a volte senza grande senso, proprio come anni fa l’uovo cotto a bassa temperatura, o il ravanello sdoganato da Redzepi, o la tavola senza tovaglia come fece Alajmo. Dobbiamo, in questo senso, imparare a rompere gli schemi, a mangiare e bere ciò che ci piace, fosse ance il vino rosso con il pesce, senza spendere per cose che vanno di moda e costano più di quel che valgono”.

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