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VINO E MERCATI

Numeri, trend, possibilità: e se la meta giusta per il vino italiano in Asia fosse la Corea del Sud?

Più piccola della Cina, meno conosciuta del Giappone, ma solidità economica e crescita accendono i riflettori su Seoul
COREA DEL SUD, ICE, Iem, JERMANN, MERCATO, MICHELE CHIARLO, SANG MI KIM, SIMPLY ITALIAN GREAT WINES, VINCENZO CALI, VINO ITALIANO, WINE 21, Mondo
Corea del Sud, un mercato da non sottovalutare

“Il comune uomo della strada pensa alla Cina e gli vengono in mente le porcellane, la Grande Muraglia e il kung-fu, pensa al Giappone e gli vengono in mente le geishe, i samurai e la cerimonia del tè, pensa alla Corea e non gli viene in mente assolutamente nulla se non, forse, il ricordo confuso di un lontano conflitto e di una divisione”. Così Maurizio Riotto, uno dei principali orientalisti d’Italia, scrive nella sua “Storia della Corea”, raccontando un Paese ancora lontano dai radar del vino italiano, ma con un’economia in crescita costante, oggi è la 12esima a livello mondiale, che fa volare anche le importazioni enoiche, specie da Francia, Cile e Italia. Belpaese che, come racconta a WineNews il direttore Ice di Seoul Vincenzo Calì, dalla prima meta della tappa asiatica del Simply Italian Great Wines di Iem, è molto più vicino di quanto non si possa pensare.
“La Corea del Sud, Paese ad alta innovazione, che nel 2019 crescerà del 2,1%, ha un rapporto decisamente solido con l’Italia: assorbe infatti l’1% dell’export tricolore, poco meno del Giappone e un terzo della Cina, ma con un trentesimo dei suoi abitanti, ossia poco più di 50 milioni. Inoltre, da qui partono un milione di persone all’anno per visitare il Belpaese, più che dal Giappone, attirati dall’amore per l’opera, l’artigianato e la cultura italiana. Il vino, in questo contesto, è ancora una nicchia - spiega Calì
- come del resto l’agroalimentare, ma c’è tutto lo spazio per crescere, nonostante la presenza marginale della ristorazione italiana, specie di qualità, specie perché stiamo sì parlando di un Paese dalla cultura millenaria, solida e storicamente chiuso, ma anche dalla grande vivacità e curiosità: non solo geograficamente, ma anche simbolicamente a metà tra Giappone e Cina, la Corea del Sud può rivelarsi una meta importante nel futuro”.
Di strada da fare, come detto, ce n’è ancora tanta, perché il vino, nei consumi di alcolici, vale appena il 4,4%, con gli spirits e la birra al 40% ciascuno. Intanto, la crescita nel 2018 è stata fenomenale: +20% a volume e +16,35% a valore, per un giro d’affari complessivo di 232 milioni di dollari, ben al di sopra della media del +5% annuo registrata tra il 2012 ed il 2017. E l’Italia, che peso e che ruolo ha? Ne abbiamo parlato con una delle maggiori esperte di settore della Corea del Sud, Sang Mi Kim, firma dell’autorevole “Wine 21”, magazine di riferimento per i wine lovers coreani. “Dai dati aggiornati ad ottobre, emerge che il Cile, a volume, resta il principale esportatore, con una quota del 30%, seguito a distanza da Francia (16,5%), Spagna (16,36%), Italia (15,87%) e Usa (7%), mentre a valore prima è la Francia (32%), quindi Cile (20%), Italia (15%), Usa (13%) e Spagna (8%)”. Per un totale di circa 30 milioni di euro nel 2018, ma in crescita nel 2019, di cui il 55% di vini rossi, il 18% di vini bianche ed il 27% di spumanti, “specie Moscato d’Asti, anche se il gusto va alla ricerca di vini meno abboccati, aprendo al strada al Prosecco, seppure, curiosamente, non a quello di basso prezzo”.
A proposito di prezzo, il 70-80% del mercato è fatto di bottiglie sotto i 20 dollari, che può sembrare tanto, ma “anche se tra Corea del Sud ed Unione Europea non ci sono dazi, le tasse interne sono altissime, pari al 60% sul costo iniziale, per cui una bottiglia che arriva a costare 20 dollari - sottolinea Sang Mi Kim - tra costi di spedizione, margine dell’importatore, margine del rivenditore e tasse parte dall’Italia ad un prezzo decisamente basso, mentre i premium wine propriamente detti costano in media 50 dollari a bottiglia, e fanno, almeno per ora, una certa fatica. Anche perché, i veri wine lovers sono ancora una nicchia, ma cresce la base dei consumatori, come dimostrano i dati della Gdo, dove nel 2018 le vendite sono cresciute del 20%, specie grazie al pubblico femminile ed ai più giovani (20-30 anni), i cui acquisti sono cresciuti del +130%, puntando sui vini bianchi e sulle mezze bottiglie (+30%). Interessante anche un altro dato - conclude la wine writer coreana - ossia che dei sette vini più venduti nel 2018, due sono italiani: il Moscato d’Asti Balbi Soprani ed il Brachetto d’Acqui Le Fronde di Fontanafredda”.
Ma quanto vale, ad oggi, il mercato della Corea del Sud per i produttori del Belpaese? I numeri dicono poco, ma non sono uguali per tutti, e anche tra le griffe dell’Istituto dei Grandi Marchi c’è chi ci punta forte. Come Michele Chiarlo, che è arrivato, “ a valere tre anni fa - racconta Giovanni Bocchino, export manager della realtà piemontese che ha reso grande il Nizza nel mondo - quasi 400.000 euro, ma dopo che il nostro importatore è stato assorbito da una realtà più grande siamo scesi a quota 280.000 euro, pronti a risalire. Il 70% del fatturato, che abbiamo costruito con un lavoro lungo dieci anni, arriva dal Moscato d’Asti, ma anche Nizza e Barolo mostrano crescite importanti. Per noi è il primo sbocco in Asia, al pari del Giappone e davanti alla Cina”.
Muove i primi passi in Corea del Sud un altro simbolo dell’enologia italiana, Jermann, griffe del Friuli Venezia Giulia con i suoi bianchi iconici. Che, storicamente, non si può certo definire un’azienda export oriented, come ammette Felix Jermann, ultima generazione della cantina friulana. “La nostra quota export è del 35%, il primo mercato è ancora di gran lunga quello interno, ma le cose stanno cambiando, nel mondo e in casa Jermann, e l’obiettivo adesso è crescere, anche sui mercati meno tradizionali, come la Corea del Sud, dove siamo arrivati di recente, raccogliendo però delle bellissime soddisfazioni, anche grazie al lavoro del nostro importatore, Enoteca (che importa anche altre griffe del Belpaese, da Allegrini a Bellavista, da Bruno Giacosa a Sassicaia, da Gaja a Soldera, ndr). C’è un potenziale enorme da sfruttare ed una grande capacità di spesa, specie per i premium wine, che hanno un loro mercato, a dir poco promettente”.

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