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Vino, la Cina è un’occasione e un pericolo. Pechino ama il made in Italy, anche in bottiglia. Ma i produttori italiani non sembrano pronti ad affrontare un mercato enorme e in crescita. Perché manca il gioco di squadra ... In questi giorni di vendemmia, segnata dalla siccità, per i produttori italiani prende forma una grande opportunità. E un pericolo: la Cina. I segnali sono incontrovertibili e nessuno potrà dire, fra qualche anno, quando magari saremo invasi dai vini made in China, che le condizioni non erano mature o altre tristi giustificazioni del genere. Le bollicine italiane, ad esempio, stanno per raggiungere e superare le ben più nobili concorrenti francesi, almeno in quantità: nei primi 6 mesi di quest’anno le importazioni di champagne sono cresciute del 40% (sono a 880.000 litri), quelle di Prosecco e spumanti dell’87% (attestandosi a 822.000 litri). Sul valore la sfida è ancora impari, ma il risultato è incoraggiante. Sapremo approfittarne? Per il momento sembra di no, visto che i maggiori importatori di bollicine italiane in Cina sono società francesi, le stesse che stanno lanciando catene di ristoranti di cucina italiana. Il made in Italy piace ai cinesi ma sembra che gli italiani non riescano a gestire questa attrazione. Chi ha già provato da tempo ad affrontare quel mercato dice che non è facile, per ragioni logistiche e per le grandi quantità che richiede. Ma non è più possibile nascondersi dietro difficoltà o limiti che altri Paesi (e produttori) stanno affrontando con determinazione. E metodo. “Noi produttori dobbiamo capire che se ci muoviamo insieme, con un progetto di marketing e di promozione organico sull’Italia del vino, possiamo cogliere una grandissima occasione in quello che è senza dubbio il mercato numero uno del futuro”, ha detto Gianluca Bisol, produttore di Prosecco, a Winenews. “Fino ad ora non lo abbiamo fatto abbastanza. E rischiamo, come sistema vino, di perdere un’opportunità colossale”. La Cina è un enorme mercato (il quinto al mondo dopo Stati Uniti, Italia, Francia e Germania, secondo i datti dell’International Wine and Spirit Research) che continua a crescere (+33,4% nel 2011) e attira i produttori da ogni parte del globo. L’Italia ha molta strada da fare: la Francia esporta 55 milioni di litri (solo vini fermi), noi appena 9, meno di Australia, Spagna e quanto il Cile. Non è un po’ poco per il primo Paese produttore nel mondo? Ma la Cina non è solo un mercato. Sta per diventare anche un pericoloso concorrente. Il governo ha da poco varato un piano quinquennale per lo sviluppo del settore con l’obiettivo di arrivare a produrre 22 milioni di ettolitri entro il 2015 (circa la metà di quanto produce l’Italia). L’Università di Pechino ha chiesto a quella di Milano di studiare incroci di vitigni per rinnovare viticoltura cinese che fa le prime prove di export. In Gran Bretagna la catena di supermercati Waitrose, che per prima nel 2011 propose nei suoi scaffali bottiglie indiane, sta per lanciare alcuni vini cinesi. I produttori italiani più avvertiti si stanno muovendo (il 60% dei finanziamenti europei Ocm, che ammontano a 25 milioni, sono destinati a operazioni cinesi) ma forse del caso dovrà occuparsi la nuova struttura che il Governo sta cercando di mettere in piedi sulle ceneri dell’Ice e di altri enti che poco hanno fatto per il gioco di squadra. Il vino rappresenta solo il 4% dell’export italiano ma resta una punta di diamante: a maggio è cresciuto, a valore, dell’8% contro una media del 5%.

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