La richiesta non manca, ma la scarsa produzione nazionale, che copre appena il 30% del fabbisogno, determina la sudditanza da mercati extra-Ue (2.000 tonnellate annue arrivano da Cina, Egitto e Turchia) e schiaccia il made in Italy con un prodotto dai bassi standard qualitativi, importato a prezzi cinque volte più bassi. È la fotografia, scattata da Cia-Agricoltori Italiani, del mercato del peperoncino, uno dei simboli gastronomici del Belpaese che in passato ha avuto però poca attenzione, identificato come sottospecie del peperone e considerato come spezia e non prodotto agricolo a tutti gli effetti. Questo l’ha spesso confinato alla passione degli hobbisti negli orti o nelle terrazze condominiali, per il solo consumo familiare.
Il problema maggiore di questa coltivazione, solo in rari casi specializzata, è legato a prezzi non concorrenziali rispetto a quelli dei Paesi da cui viene importato. Se in Italia da 10 kg di peperoncino fresco si ottiene 1 kg di prodotto essiccato, macinato in polvere pura al 100% e commerciabile a 15 euro, l’analogo prodotto dalla Cina ha un costo di soli 3 euro, ed è il risultato di tecniche di raccolta e trasformazione molto grossolane, con le quali la piantina viene interamente triturata, compresi picciolo, foglie, radici, con pochissime garanzie di qualità e requisiti fitosanitari ben diversi da quelli conformi ai regolamenti europei. La polvere stessa è per sua natura facilmente sofisticabile (si ricordi, in passato, il caso del colorante Sudan) e anche quando il peperoncino viene importato fresco o semi-lavorato da Turchia o Egitto, la sua qualità viene compromessa dall’utilizzo di molti conservanti. L’elevato costo di produzione del peperoncino in Italia, sia fresco sia trasformato in polvere, è dato soprattutto dall’incidenza della manodopera e da procedure di trasformazione altamente professionali, compresi macchinari per l’ozono per una perfetta essiccazione.
Secondo Cia-Agricoltori Italiani occorre, dunque, una maggiore valorizzazione e tutela del prodotto che, grazie al microclima e alle caratteristiche orografiche del terreno, trova nel nostro Paese l’ambiente ideale per la sua coltivazione. La creazione di denominazioni di origine territoriale darebbe al consumatore garanzia di qualità, tracciabilità e salubrità e un valore aggiunto adeguato alla parte produttiva, incentivata ad aumentarne la coltivazione estensiva, localizzata perlopiù in Calabria (100 ettari, con il 25% della produzione), Basilicata, Campania, Lazio e Abruzzo. Si verrebbe, così, incontro alla domanda sempre crescente dell’industria alimentare, che produce sughi e salami piccanti, senza dimenticare l’export, con la richiesta per salse e condimenti delle grandi aziende del food, fra le quali spiccano quelle dei Paesi Bassi, che rappresentano attualmente la destinazione del 50% della produzione di peperoncino della Calabria.
Il sistema produttivo italiano, oltre a certificazioni di qualità, continua Cia-Agricoltori Italiani, avrebbe bisogno anche di un ammodernamento delle tecniche di lavorazione per abbattere i costi produttivi, a partire dalla migliorazione varietale delle cultivar, per ottenere frutti concentrati sulla parte superiore ed esterna della pianta, più facilmente distaccabili nelle operazioni di raccolta con macchine agevolatrici.
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